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La nuova schiavitù del debito

La nuova schiavitù del debito

La schiavitù antica e moderna

Tra tutte le forme di dominio dell’uomo sull’uomo, la schiavitù è certamente la più odiosa dal punto di vista morale: un essere umano diventa letteralmente una cosa, uno strumento di lavoro di proprietà permanente di un altro essere umano, in un processo di degradazione assoluta. È vero che, come fa notare Hegel,[1] la cosificazione dell’essere umano è sempre in qualche modo presente in ogni rapporto gerarchico in cui alcuni possono costringere altri a lavorare per proprio conto riservandosi in esclusiva il prodotto della loro opera, nel rapporto di subordinazione schiavistico però questa subordinazione è personale, totalizzante e permanente, per non dire del fatto che la cosificazione è sancita anche a livello giuridico e di rappresentazione sociale. Una persona fa l’operaio, il contadino, l’insegnante, ecc. mentre un individuo ridotto a questo stato di subordinazione non fa lo schiavo, è uno schiavo. Come il martello non fa il martello ma è semplicemente un attrezzo, anche allo schiavo, di là della realtà delle cose che lo fa restare comunque un essere con la sua personalità altra dai compiti che si trova a svolgere, è disconosciuta altra essenza che quello del suo compito.

Il lavoro forzato era diffuso, anche se non maggioritario, in tutti gli stati antichi. Facendo salve le cosiddette “società della Dea Madre”, ogni genere di civiltà – greca, romana, persiana, cristiana, giudaica, islamica, ecc. per non parlare del resto del pianeta – praticava la schiavitù: ci occupiamo qui in particolare delle civiltà cristiane, dato che queste hanno poi dato vita agli attuali rapporti mondiali di potere economici e geopolitici. Innanzitutto, nonostante un modo di pensare assai diffuso, il cristianesimo non ha affatto abolito la schiavitù una volta giunto al potere nell’impero romano e questa, una volta crollato questo, è continuata a persistere nelle campagne sotto l’eufemistico nome di “servitù della gleba”,[2] mentre nelle città è continuata a sussistere sotto questo nome, alimentata dall’afflusso delle popolazione soprattutto slave (di qui il termine schiavo) asservite.[3] Nell’Impero Romano d’Oriente, poi, vale lo stesso discorso.

Con la colonizzazione delle Americhe nel Cinquecento, la domanda di schiavi da parte degli europei conquistatori si è impennata e questi si sono rivolti prima agli schiavisti musulmani per poi iniziare a mettersi in proprio: tra il XVI e il XIX secolo, gli africani sequestrati e portati oltre Atlantico furono circa 12 milioni, il che portò ad un’ulteriore impennata del fenomeno anche in Oriente (circa 17 milioni gli africani resi schiavi nell’Impero Ottomano) e nella stessa Africa (circa 14 milioni quelli da parte di altri africani).

Verso l’abolizione della schiavitù

Insomma, nessuna religione ha avuto a che fare con l’abolizione dell’istituto giuridico della schiavitù (e per un certo periodo della cosa stessa): il tema abolizionista prende infatti vita solo in epoca illuministica e, soprattutto, con la nascita del movimento operaio e socialista.[4] La tratta (ma non la schiavitù in sé), dopo la pioneristica abolizione della Danimarca (1792), venne approvata da parte della Gran Bretagna nel 1807 e gradatamente nel resto dei paesi europei e negli Stati Uniti dopo la Guerra di Secessione.[5] A fine secolo la schiavitù era ancora diffusa nei regni africani ed asiatici ed il suo sradicamento fu uno dei pretesti ideologici che fu usato nell’epoca dell’imperialismo per giustificare la conquista coloniale di Africa e Medio Oriente in nome del “portare la civiltà”.

Dopo che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948 firmata sotto l’egida delle Nazioni Unite proibiva esplicitamente ogni forma di schiavitù e/o servitù e la sua tratta, il periodo della decolonizzazione e dei “trent’anni gloriosi” dello Stato Sociale vide – per la prima volta nella storia dell’umanità – il fenomeno della schiavitù pressoché estinguersi: quando nel 1980 l’ultimo stato al mondo (La Mauritania) abolì formalmente la schiavitù, le Nazioni Unite comunicarono trionfalmente al mondo che, oramai, questo flagello era pressoché scomparso del tutto, salvo minuscole sacche. Purtroppo, furono le ultime parole famose.

Il ritorno della schiavitù

Da allora, infatti, il fenomeno è ripreso con sempre maggiore forza: oggi, considerando tale i lavori forzati, le prestazioni professionali svolte non volontariamente o dietro compenso bensì sotto minacce o costrizioni fisiche, abbiamo a che fare con circa quarantacinque milioni di esseri umani ridotti in schiavitù. Questo non considerando i lavori fortemente sottopagati al limite della mera sopravvivenza fisica, altrimenti saremmo nell’ordine delle centinaia di milioni.[6] Il tutto in poche decine di anni: se “neo”liberismo e globalizzazione capitalista hanno generalmente un volto feroce, questo è agghiacciante.

Questo fenomeno è fortemente sottostimato, persino nella sinistra ed anche in quella rivoluzionaria: non se ne comprende cioè la portata che va ben oltre i disgraziati esseri umani direttamente coinvolti in esso. Innanzitutto, la presenza di queste decine di milioni di esseri umani schiavizzati in senso stretto e le centinaia di milioni ai limiti della schiavizzazione, loro malgrado, abbattono enormemente il valore del lavoro dipendente e, quindi, è una causa importante e non semplicemente una coincidenza cronologica dell’impoverimento generalizzato della stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta, nonché della spaventosa polarizzazione della ricchezza che vediamo espandersi ogni anno di più. Non si tratta, però, solo di questo.

Per queste decine di milioni di esseri umani, infatti, si parla di “nuova” schiavitù non solo in senso cronologico. In effetti, nel momento in cui non c’è più un solo paese al mondo che riconosca giuridicamente la schiavitù, ci sono notevoli differenze tra la schiavitù antica e questa nostra contemporanea. Innanzitutto, lo schiavista non può rivendicare esplicitamente la proprietà giuridica dei suoi dominati ed essi, quindi, risultano per lui un pericolo: la nuova schiavitù è allora del tipo “usa e getta”, dove i lavoratori schiavizzati vengono spesso costretti a fatiche durissime ed abbandonati il prima possibile, quando il loro fisico si è talmente debilitato da non essere più produttivo.[7]

Per lo stesso motivo, il “nuovo schiavista” nasconde spesso il rapporto che instaura con i suoi dominati dietro il paravento di un rapporto debitorio: costringe, insomma, gli schiavizzati a contrarre con essi un debito enorme e di fatto inesauribile. Il lavoro forzato cui sono costretti, perciò, apparentemente è pagato, magari anche bene, ma scompare immediatamente nel pozzo senza fondo del debito di cui sopra.

Schiavitù dell’intero pianeta?

Questo è l’altro aspetto della faccenda: il rapporto di schiavitù debitoria non è affatto limitato oggi agli individui, ma si è allargato e pervade i rapporti tra gli Stati e le aziende che hanno dei comportamenti nei confronti del genere umano in generale non diverso da quello dei nuovi schiavisti. I rapporti tra banche, aziende piccole, medie e grandi, nazioni, istituzioni politiche sovranazionali, aziende multinazionali possono oggi essere largamente descritti negli stessi termini del rapporto tra il nuovo schiavista ed i nuovi schiavizzati: il debito è lo strumento che incatena i comportamenti di tutte queste entità, le costringe in una gabbia di acciaio. La stragrande maggioranza del bilancio di individui, banche ed aziende anche di non piccole dimensioni e soprattutto nazioni è destinato a pagare interessi su di un debito di fatto pressoché inestinguibile: i “sacrifici” cui veniamo periodicamente chiamati non servono a ripagare il debito contratto, ma semplicemente a pagarne gli interessi, magari accendendone di nuovo. Anche i processi di fallimento/accentramento aziendali seguono dinamiche simili.[8]

Insomma, il rapporto di “nuova schiavizzazione” è molto avanzato ed anche qui non è il nuovo che avanza ma il vecchio che ritorna: il capitalismo, differentemente da certe illusioni marxiane, è nella sua essenza un rapporto banditesco fondato, alla fin fine, per dirla alla Graeber, sulla violenza e/o sulla minaccia della violenza. Si pensi, ad esempio, al caso greco dove, prima che il governo di Syritza calasse le braghe, sembrava che la nazione intendesse effettivamente rifiutarsi di pagare, almeno in parte, il debito inesauribile cui era sottoposta la nazione ed alle minacce di invasione militare che cominciarono a girare.

Debito inesauribile e manovra prossima ventura

I trattati europei pongono alcune restrizioni in fattori chiave per l’economia a livello nazionale: uno di questo è costituito da una serie di norme e direttive che tendono a parametrizzare il debito che ogni Stato ha con la BCE. Si controllano le relazioni fra la crescita economica (attraverso il PIL) e l’indebitamento complessivo (debito più gli interessi). Ciò che preoccupa la commissione europea non è tanto il debito in sé ma la sua solvibilità, anzi un paese senza debito è un paese che non può essere perfettamente controllato in quanto non ricattabile con le minacce di procedure di infrazione e le relative sanzioni.

La solvibilità delle obbligazioni acquistate dalla BCE per “finanziare” il debito degli stati membri è un affare che non riguarda solo i rapporti tra i ministeri del tesoro e la BCE. Sarebbe forse meglio usare il termine finanziarizzazione del debito: infatti sono molti i soggetti interessati ad investire nei prodotti finanziari legati alla solvibilità dei buoni del tesoro, nel nostro caso i BTP-future. Questi pur avendo come oggetto i Buoni del Tesoro nostrani, sono emessi da Eurex, cioè il listino tedesco dei derivati del gruppo Deutsche Börse.[9]

Da un lato quindi abbiamo un debito con la BCE, dall’altro abbiamo i mercati finanziari che hanno investito nella solvibilità dei BTP attraverso i future ad essi collegati – in pratica il nostro debito non è un “debito sovrano” gestibile in proprio. Questo ci spiega, in parte, le ragioni della procedura di infrazione, che punisce chi mette a repentaglio la stabilità dei mercati. Questo però cosa comporta per le tasche di noi tutti? Una colossale purga collettiva, in altre parole l’inevitabile manovra bis che prevede il recupero di punti decimali del rapporto debito PIL attraverso la spending review e l’inasprimento di alcune imposte chiave, tipo le tasse sul consumo (da noi sostanzialmente l’IVA).

Questo potrà voler significare un progressivo taglio al reddito di cittadinanza ed un innalzamento dell’IVA, che colpirà soprattutto i non benestanti. Ovviamente il Governo si giustificherà dando la colpa all’Europa, rinnovando il mantra sovranista per rastrellare altri consensi salvando la faccia. In questo teatro dell’assurdo si alternano sulla scena contraddizioni assortite e paradossi mascherati da una “logica ineluttabilità”: austerity, stabilità e solvibilità vengono propinate come cure necessarie per conservare un’economia sana e continuare ad essere credibili agli occhi attenti dei mercati.

La realtà è che il reddito medio è bloccato, il potere d’acquisto è eroso dalla demolizione sistematica del welfare (parte del mio reddito serve per pagare servizi che prima erano gratuiti o quasi) e dall’innalzamento di tasse e tariffe al consumo, mentre il precariato è per molti l’unico orizzonte alternativo alla disoccupazione in crescita. Questo il triste quadro economico: sul piano sociale è forse anche peggio, dal momento che il reddito è il perno centrale del sistema dei consumi – se non puoi spendere non sei parte attiva della società ma, soprattutto, se non hai potere d’acquisto non puoi permetterti servizi essenziali, che seppur garantiti sono quasi inutilizzabili in buona parte del paese. Sanità pubblica con attese interminabili, trasporto pubblico quasi interamente privatizzato e con tariffe in continua crescita, servizi essenziali (acqua ed energia) da anni in pasto ai privati.

In questo meccanismo il reddito individuale o familiare diviene essenziale per la sopravvivenza all’interno dei parametri imposti dalla società dei consumi: l’esigenza di reddito è quindi la base del più colossale e meschino ricatto mai orchestrato. Quindi da un lato della barricata abbiamo un sistema che lega il debito pubblico ai mercati e che impoverisce progressivamente la maggior parte della società, dall’altro la popolazione che deve procacciarsi un minimo di reddito per poter continuare a sentirsi parte di uno standard sociale incentrato sulla capacità di consumare. Il paradosso è che il sistema non consente alla maggior parte della popolazione di guadagnare a sufficienza per non dover sottostare al ricatto lavorativo.

Il ricatto in questione è parte strutturante del meccanismo decisionale attraverso il quale il sistema capitalista riesce a sostenere sé stesso e la sua tendenza alla replicazione indefinita: con il ricatto occupazionale si barattano pochi posti di lavoro a tempo determinato in cambio di devastazioni territoriali (le grandi opere, i grandi impianti ecc.); con il ricatto del lavoro si impongono salari sempre più esigui e posti di lavoro a condizioni sempre peggiori con tempi di permanenza sempre più brevi. Peggiori sono le condizioni generali, più facile è far accettare il ricatto, la differenza tra la libertà di accettare una condizione temporaneamente svantaggiosa ed un orizzonte di vera e propria schiavitù rispetto al reddito si fa sempre più esile.

La manovra bis quindi non è che una tappa in un percorso a senso unico che non ha altra via d’uscita se non il progressivo impoverimento della società, povertà che si trasforma nella migliore garanzia per ottenere una popolazione pronta a tutto pur di accaparrarsi qualche spicciolo, accettando il saccheggio delle proprie ricchezze territoriali, di svendere il patrimonio statale, di svendere il proprio lavoro e soprattutto pronti ad incolpare sempre gli ultimi per le loro miserie. L’aumento dell’IVA, l’innalzamento dell’età pensionabile sono tutti espedienti per garantire guadagni a chi investe sul nostro debito…

Enrico Voccia / JR

NOTE

[1] HEGEL, George Whilhelm Friedrich, Fenomenologia dello Spirito, Milano, Rusconi, a cura di Vincenzo Cicero, 1995, “Autonomia e Non Autonomia della Coscienza. Signoria e Servitù”, pagg. 275-291 (vedi in particolare, per l’introduzione del tema della cosalità, pag. 283).

[2] La servitù della gleba era, innanzitutto, una forma di schiavitù già conosciuta in epoca antica (nell’impero romano sotto il nome di “colonato”) ed esplicitata giuridicamente come tale. Tra l’altro, in questa forma di schiavitù, l’aspetto di cosificazione è ancora più marcato, dato che considera questo genere di esseri umani come parte fisica di una zolla di terra. Se nella storiografia occidentale per lunghissimo tempo si è sofisticato e si sofistica ancora sulla differenza tra “schiavitù” e “servitù” il motivo è un pregiudizio ideologico del tutto infondato, quello per cui il cristianesimo avrebbe appunto abolito la schiavitù (che, invece, come si vedrà, comincia a scomparire in epoca illuministica). In realtà, qualunque elemento invocato come differenza tra i due istituti (ad esempio, la possibilità di avere una famiglia, di possedere qualcosa, di godere di un minimo di diritti, ecc.) era presente nelle forme della schiavitù antica, un fenomeno sociale e giuridico multiforme.

[3] http://www.italiamedievale.org/portale/i-secoli-degli-schiavi-slavi/

[4] Si citano spesso alle origini del movimento abolizionista i fedeli evangelici inglesi e nordamericani; questi però sono stati abbondantemente preceduti dai teorici illuministi e protosocialisti (per limitarci alla Francia, la voce “Tratta dei Neri” dell’Encyclopédie scritta da Louis de Jaucourt nel 1776 condanna la schiavitù ed il commercio degli schiavi in quanto contraria a “la morale, le leggi naturali, e tutti i diritti naturali dell’uomo” e Jacques Pierre Brissot fonda la Società degli Amici dei Neri nel 1788) e sono da questi largamente influenzati.

[5] Un abolizione graduale ma per nulla lineare: talvolta gli schiavi neri americani venivano sostituiti con schiavi asiatici ed anche da immigrati europei poveri, i quali si trovarono, magari non giuridicamente, schiavi de facto.

[6] Vedi, a parte il classico BALES, Kevin, I Nuovi Schiavi: la Merce Umana nell’Economia Globale, Milano, Feltrinelli, 2002, in rete: https://www.lifegate.it/persone/news/schiavitu-moderna ; https://www.mosaicodipace.it/mosaico/a/19344.html ; https://www.internazionale.it/notizie/kate-hodal/2019/03/11/persone-ridotte-schiavitu ;

www.albesteiner.net/scuola/schiavismo/documenti/schiavismo_oggi.pdf .

[7] Il modello di questo sfruttamento schiavistico “usa e getta” sono stati i campi di lavoro forzati colonialisti e nazifascisti: la gran parte dei deportati moriva letteralmente di lavoro forzato accompagnato da una dose minima di alimenti. La cosa mi sembra evidente, anche se gli studi sul fenomeno che ho consultato da quindici anni a questa parte non li ho mai visti fare questa analisi storiografica.

[8] Per un’analisi di straordinario interesse del fenomeno in termini di antropologia economica è certamente da leggere GRAEBER, David, Debito. Gli Ultimi 5.000 Anni, Milano, Feltrinelli, 2011.

[9] Il Sole 24 Ore Finanza & Mercati (https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2019-06-03/btp-futures-parafulmine-d-europa-ed-eldorado-le-banche-d-affari 204447.shtml?uuid=ACTCKnL).

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