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Il (non)senso della pena

Il (non)senso della pena

Campobasso, Rieti, Nisida e in ultimo Poggioreale. Rivolte, evasioni, proteste dei detenuti . Dallo sciopero della fame al suicidio: in media sono tre suicidi al giorno, in ambienti angusti e sovraffollati. A Poggioreale si consuma l’ultima barbarie di Stato: mancate cure ai detenuti che in un ambiente del genere, con scarsità d’acqua, sono all’ordine del giorno.

Questi i fatti: un detenuto di 28 anni, sofferente di anemia, con febbre altissima e quasi in coma, in una cella abitata da 15 persone, chiede invano di essere curato. La protesta scatta istintivamente: in solidarietà col giovane sofferente tutto il padiglione Salerno (adibito alla “contenzione” di detenuti definiti “comuni”) si ribella e con mazze di scopa ed altri oggetti improvvisati si impossessano dell’intero reparto fino a quando, dopo una trattativa, il giovane viene finalmente trasferito all’ospedale Cardarelli . A questo punto la protesta finisce. Nessun agente ferito e solo danni alle strutture.

Ora potrei snocciolare dati, numeri sulle ribellioni, sui suicidi, sui livelli di sovraffollamento come magari farebbe un sindacalista della polizia penitenziaria, ma non è questo il punto. In una società ideale nella quale nessuno morisse in carcere e nella quale nessuno tentasse di suicidarsi, nella quale nessuno secondino volesse sfogare la propria frustrazione su altri uomini, la prigione non potrebbe in ogni caso essere desiderabile.

La prigione, il cui compito è quello di “rieducare i devianti” dalle norme imposte dallo Stato, diviene una vera e propria palestra del crimine capace di instaurare odio e rabbia in chiunque: è l’estensione del sistema che diventa paradossalmente antisistema. Qualsiasi forma di ribellione va sostenuta, qualsiasi movimento in favore dell’abolizione di questo sistema crudele che non ha mai funzionato e mai funzionerà persino in un’ottica borghese, va eliminato.

Eppure, qualcuno potrebbe obiettare che la prigione è sempre esistita nel corso della storia umana. Ebbene non è così: è anch’essa frutto di processi storici ben definiti. La storia del carcere come modalità punitiva è una storia relativamente recente, e ha a che fare con la modernità giuridica. Prima di allora, non che non esistessero luoghi di clausura, anche a fini di giustizia, ma avevano altri scopi, non quello di punire il condannato per un periodo di tempo più o meno lungo.[1]

Le prigioni moderne nascono per costringere i vagabondi, gli spossessati dalle terre comuni, dopo le enclosures e gli espropri, a lavorare in maniera coatta per i padroni in appositi “istituti di pena”. Nel passaggio allo Stato moderno e nel capitalismo avanzato le pene carcerarie non servono più per ottenere manodopera a buon mercato in presenza di carenza di forza lavoro; adesso il loro scopo è quello di convincere le classi subalterne ad accettare qualunque condizione di lavoro offerta dal mercato, pur di non finire rinchiusi in luoghi che di umano conservano ben poco.

Senza però inerpicarci in excursus storici e teorici, mi preme ribadire che le evasioni, le ribellioni e la solidarietà che istintivamente si instaura fra detenuti, nonostante gli ambienti sovraffollati e gli spazi angusti, sono eventi “naturali” e possono essere osservati in tutto il mondo e in ogni epoca: dalle Americhe all’Europa, dall’Asia all’Africa, esse sono la risposta legittima ed istintiva di coloro i quali sono considerati dallo Stato come “rifiuti della società”.

Certo l’obiezione di chi, campione della legalità e dello Stato vendicativo, si chiede come dovrebbe essere trattato colui che commette crimini efferati, magari un mafioso che ammazza bambini nell’acido e cose simili pone interrogativi a prima vista imbarazzanti. La prigione qui però non c’entra nulla e lo Stato decide spesso in base a criteri totalmente avulsi dal senso di giustizia: molti di questi criminali, sono liberi, non vivono in condizioni disumane nei lager di stato se decidono di collaborare e, seppurw restano sottoposti a regimi restrittivi (come l’abominio del 41 bis che organizzazioni umanitarie hanno definito “tortura”), questo non li renderà persone migliori, non servirà a nessuna “rieducazione”.

Se anche i liberali, i fautori di generici diritti umani, le associazioni democratiche, partiti di varie nazioni europee, si interrogano sull’utilità reale (dal loro punto di vista) del sistema penitenziario, qualcosa alla fin fine dovrebbe far cominciare a riflettere anche i più scettici.

Eliminata la negazione dei bisogni primari, rendendo accessibile per ognuno ciò che la società futura definirà come desiderabile, non ci sarà bisogno di prigioni e galere. Da anarchici ricorderemo sempre le parole di un grande uomo di scienza e attento osservatore della società :

Il primo compito della rivoluzione sarà quello di abolire le prigioni, questi monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini. Non bisognerà temere alcun comportamento antisociale in una società di uguali, composta da individui liberi, ognuno dei quali avrà ricevuto una sana istruzione e acquisito l’abitudine di aiutare il suo prossimo. La maggior parte di questi comportamenti non avrà più alcuna ragione d’essere. Gli altri saranno stroncati sul nascere. Per quanto riguarda gli individui con inclinazioni malvagie che la società esistente ci consegnerà dopo la rivoluzione, sarà nostro compito impedire alle loro inclinazioni di esprimersi. Ciò già avviene con successo grazie alla compattezza che tutti i membri della comunità oppongono a questi aggressori. Se pure non dovessimo riuscire, in ogni caso gli unici rimedi pratici rimangono il trattamento fraterno ed il sostegno morale. Questa non è utopia. Il metodo è già praticato da individui isolati e diventerà regola generale. Esso proteggerà la società dai comportamenti antisociali molto più efficacemente dell’attuale sistema punitivo che non è altro che una fonte inestinguibile di nuovi crimini.[2]

Redazionale

NOTE

[1] Vedi http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/origini_carcere.pdf

[2] KROPOTKIN, Piotr, 1877, “Prisons and Their Moral Influence on Prisoners”, in KROPOTKIN, Piotr, 1927, Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets, Vanguard Press, New York.

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