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Potere e sapere

Potere e sapere

Qualità

Jules Hoffman riceve il premio Nobel per la Medicina e Fisiologia nel 2011 per la scoperta di molecole responsabili dell’attivazione delle difese immuni del moscerino da frutta. La scoperta di queste molecole è avvenuta studiando l’embriogenesi degli insetti e rispondendo alla domanda sul perché questi organismi sono più resistenti di altri animali alle infezioni. In seguito si è scoperto che queste molecole si sono conservate durante l’evoluzione fino a noi e manipolandole si possono curare e prevenire molte malattie. Questo è un esempio tra i tanti di ricerca inizialmente svolta solo per soddisfare la curiosità degli sperimentatori.

Il comitato interministeriale della repubblica italiana per la ricerca scientifica non indicherebbe come prioritarie al governo le ricerche come quelle condotte da Jules Hoffman in quanto non rispondenti alle linee guida del programma nazionale ricerca (PNR) quinquennale (il PNR viene adottato dai ministeri erogatori di fondi per la ricerca: MIUR, Ministero della Salute, Ministero della Difesa).

Se analizziamo gli ultimi due PNR (2013 e 2015) gli obiettivi dichiarati sono: favorire il trasferimento dei “prodotti” della ricerca di base e traslazionale a favore delle imprese e per un loro pronto impiego nel mercato. In poche parole vengono implementate solo quelle attività di ricerca che hanno ricadute tecnologiche rapidamente sfruttabili o in termini economici o in termini di controllo sociale. Questi PNR evidentemente lasciano fuori dai finanziamenti progetti di ricerca di base non finalizzati allo sfruttamento economico e tesi a soddisfare la curiosità e voglia di libera conoscenza. Questa strategia ha come effetto che importanti aree del sapere umano, in primis le discipline umanistiche, sono penalizzate severamente rischiando persino la perdita di conoscenze acquisite in epoche passate. È interessante notare che, per cercare di ovviare parzialmente all’asservimento della conoscenza al mercato, nel 2016 con la legge 232 veniva istituito il Fondo Italiano per la ricerca di base, questa misura non è però stata riproposta dopo quella data. In ogni caso questo singolo intervento non è riuscito a bilanciare l’enorme differenza che esiste tra la spesa per la ricerca finalizzata al mercato (ricerca applicata+sviluppo sperimentale) che assorbe il 76,7% e quella di base cui è dedicato isolo il 23,2% del budget: i dati sono riferiti al 2016.[1]

Questi dati indicano che la ricerca di base libera e non condizionata da alcuna finalità mercantile, che possiamo definirecome ricerca guidata unicamente dalla curiosità, è severamente penalizzata in Italia. Tuttavia il valore della libertà nella ricerca e la possibilità di fare ricerca semplicemente per soddisfare curiosità e desiderio di conoscenza, secondo molti autorevoli membri della comunità scientifica, ha un valore molto maggiore della ricerca finalizzata.

Le motivazioni che vengono usate per giustificare il sistema di finanziamento della ricerca finalizzata si basano sulla considerazione che i requisiti minimi per avere una vita soddisfacente sono beni materiali come cibo e tetto, o quelli che garantiscono la sopravvivenza della specie: la riproduzione; al più, dato che siamo animali sociali, la possibilità di unirci in gruppi con altri individui. Tuttavia la curiosità dovrebbe essere annoverata tra le caratteristiche principali della nostra specie: essa è il motore dei maggiori successi che abbiamo avuto nell’adattarci ai cambiamenti dell’ambiente. Nelle diverse epoche storiche è stata la curiosità che ha spinto l’uomo ad esplorare aree geografiche diverse, a muoversi ed immaginare oltre le frontiere dello scibile umano allora conosciuto ed accettato. Spesso questa attività intellettuale ha consentito al genere umano di migliorare le sue condizioni di vita. Lo stesso Albert Einstein in una sua corrispondenza personale nel 1952 scriveva di se stesso affermando di non avere nessun talento personale ma di essere solo una persona molto curiosa.[2] Quasi tutti i premi Nobel riconoscono che hanno intrapreso la carriera scientifica non per ambizione o per i possibili premi ma semplicemente per soddisfare la propria curiosità nel chiedersi il perché delle cose.

A questo punto del discorso va fatta una considerazione: gli scienziati sono dei grandi curiosi così come i bambini. Tutti i bambini in questo senso “nascono scienziati” perché dotati di una innata curiosità ed è il sistema educativo attuale che tende a spegnerla allontanandoli dalla conoscenza. Da questo punto di vista lo scienziato è un bambino sopravvissuto al processo di omologazione della scuola.

Tornando al discorso principale, storicamente si distingue una scienza pura da una scienza applicata. La scienza pura è quella guidata dalla curiosità di cui abbiamo parlato precedentemente ed ha le caratteristiche di essere conoscitiva e di muovere i suoi passi da assiomi intuitivi, visioni, immaginazione, autoevidenza. La scienza applicata al contrario ha una finalizzazione sin dal suo concepimento: deve risolvere problemi di interazione tra l’uomo e l’ambiente e produrre tecnologie spendibili nel mercato e nella politica: un importante momento storico della creazione di un rapporto egemone della ricerca applicata nei finanziamenti è stato dato da Margaret Tatcher quando era Segretario di Stato per l’Istruzione e la Scienza negli anni ’70 del secolo scorso prima di ricoprire l’incarico di primo ministro.

Un altro aspetto ancora da considerare è come i diversi campi di conoscenza concorrano nel portare ad una scoperta scientifica di valore. Spesso, infatti, da una scoperta si acquisisce una conoscenza che verrà utilizzata in un campo completamente differente che la userà per risolvere qualche particolare necessità, come nel celebre caso di Gregorio Mendel che aveva interesse a migliorare la qualità dei piselli dolci commestibili nel giardino del monastero: questa attività botanica lo portò a fare importanti osservazioni oggi alla base della genetica moderna. Oppure la scoperta che le malattie siano dovute a un cattivo funzionamento delle cellule di Rudolf Virkov fatta agli inizi del 1900 nasce tre secoli prima quando il fisico, architetto e geologo inglese Robert Hooke, che studiava la costellazione di Orione e le rotazioni assiali di Giove, decise di puntare il cannocchiale non verso il cielo ma su dei fossili questo gli permise di osservare la struttura cellulare per la prima volta e quindi definire il concetto di cellula alla base degli organi e tessuti.[3]

Quantità

Bene, se il governo italiano non è lungimirante nel favorire la libera ricerca non fa meglio dal punto di vista quantitativo. Infatti, mentre le critiche fatte sinora sulla qualità della ricerca finanziata in Italia si possono applicare su scala globale, il sistema della ricerca italiana ha delle sue peculiarità negative per quanto investe.

Il rapporto tra stato italiano e ricerca raggiunge il suo azimut quando lo si analizza dal punto di vista quantitativo e questo lo rende unico nell’ambito delle nazioni rappresentate nel G20: gli investimenti dello stato italiano per la ricerca sono tra gli ultimi su scale europea. Iniziamo dal numero dei Dottorandi di Ricerca: l’Italia ha la percentuale più bassa (6%) tra i paesi europei venendo dopo la Polonia. Su scala planetaria la quantità di fondi che vengono spesi dall’Italia per la ricerca si allineano con i budget di paesi meno ricchi come Messico, Ungheria Turchia, in assoluto tra i più bassi al mondo.[4]

Dal 2007 ad oggi il numero dei posti per dottorandi di ricerca in Italia è diminuito del 43% su base nazionale ed in particolare del 37% nel nord italia e del 55% nel sud.[5] Inoltre oggi i nostri dottorandi hanno a disposizione solo 3 anni di formazione coperta da borsa di studio a fronte dei 4 anni riconosciuti a livello internazionale.

L’università italiana è al 14° posto sui 28 stati membri dell’EU per quanto riguarda l’uguaglianza di genere con ben 4.4 punti al disotto della media Europea.[6] La maggiore disuguaglianza tra i generi è soprattutto nella partecipazione delle donne negli organi decisionali e di potere. Anche questo aspetto meriterebbe delle misure specifiche ed urgenti per ottenere almeno il riequilibrio in tempi brevi.

Se prendiamo in considerazione alcuni dati forniti dal Centro nazionale delle Ricerche (CNR) nel suo rapporto sulla ricerca 2018 il quadro che emerge è ancora più preoccupante. Gli investimenti calcolati come percentuale del prodotto interno lordo (PIL) dello stato italiano dal 2000 ad oggi si sono sempre mantenuti al di sotto della media europea (2%): per l’Italia il valore è dell’1.3% posizionandosi 15° sui 20 paesi analizzati dall’Agenzia per la Valutazione Università e Ricerca (ANVUR). Per esempio la Corea del Sud è prima con un 4,25%; fa meglio dell’Italia anche Israele (4%) mentre spendono meno dell’Italia per la ricerca solo Polonia (0.97%), Turchia (0.87%) e Grecia (0.97%).

La ripartizione degli esigui fondi è distribuita in maniera asimmetrica tra scienze umane e scienze naturali, mediche, ingegneristiche ed agrarie, con il 28% assegnato alle prime ed il restante 72% alle seconde. In ogni caso il numero degli impiegati nel settore Ricerca in Italia è largamente al disotto della media europea, con una percentuale di ricercatori impiegati a tempo pieno sul personale coinvolto nelle attività di ricerca di 40% delle risorse umane mentre la media europea è di 65-70% (l’Italia è al penultimo posto in base all’analisi OCSE “Main Science and Technology Indicators 2018”).

La diseguanglianza nell’attribuzione dei fondi è anche su base geografica: infatti il 70% dei fondi va alle regioni del nord del paese, riproponendo il divario tra nord e sud del paese anche in chiave scientifica. La nuova misura del MIUR di trasferimento fondi ai Dipartimenti di eccellenza secondo i criteri di produttività legati al numero di pubblicazioni e citazioni ha visto finanziati nel 2018 solo 180 dipartimenti su 760, dei quali 155 localizzati nelle regioni del centro-nord Italia. Questo è un esempio di come il MIUR abbia scelto strategicamente di favorire nella miseria generale una parte del paese a discapito dell’altra e questo porta ad una desertificazione scientifica del meridione d’Italia.

Bisogna tener conto che la riduzione del budget per la ricerca colpisce soprattutto le Università che da sole forniscono il 56% dei costi per la ricerca di base mentre il settore privato (imprese) si ferma al 9.8%. Questa povertà di risorse innesca un circolo vizioso che ha anche una ricaduta negativa anche sul sistema educativo. Il numero di studenti con alta qualificazione italiani (laureati, dottori di ricerca) è superiore a quello che può essere assorbito come ricercatori, funzionari tecnici, amministrazione nel comparto ricerca: questi quindi, non trovando posto nelle università e centri di ricerca pubblici, sono costretti ad emigrare rendendo sempre meno attraente un percorso di studio universitario che non offre sbocchi occupazionali e riducendo il numero di laureati presenti nel paese. Per quanto riguarda il numero dei brevetti l’Italia rimane negli ultimi posti dei paesi europei.

Unico dato che secondo il ministero dimostra una certa vitalità del sistema ricerca italiano sono il numero di pubblicazioni e citazioni che dall’introduzione della legge Gelmini nel 2010 si è registrato. Su questo punto uno studio pubblicato da ricercatori italiani e ripreso dalla autorevole rivista Nature[7] ha chiarito che l’aumento della quantità e dell’impatto dei lavori scientifici italiani calcolato come numero di citazioni sia dovuto all’autocitazione dei propri lavori da parte degli autori italiani o alla creazione di network di autori che si scambiano vicendevolmente le citazioni. Questo fenomeno che porta ad una sproporzionata evidenza di lavori mediocri, inquina il flusso di informazioni utili e rallenta il progresso scientifico: ha una sua ragione di essere solo nell’ambito della riforma dell’Università. Infatti le progressioni stipendiali e di carriera si poggiano in larga misura sull’utilizzo dell’indice di citazione come parametro per misurare la produttività del ricercatore.

Lo scenario fin qui mostrato ha una sua giustificazione politica e storica: oggi la scienza come qualsiasi altro ambito dell’attività umana è sottomessa da un lato alla legge del mercato (quindi alla capacità di produrre profitto) e dall’altra all’ideologia neo-liberista e/o sovranista che impone un impoverimento sempre maggiore del livello culturale della popolazione al fine di eliminare ogni forma di resistenza basata sul sapere critico. Il processo in atto tende all’eliminazione della libertà di ricerca a favore dello sviluppo tecnocratico.

Riprendere le esperienze storiche degli atenei libertari come ambiti di produzione culturale autogestita e autodidatta è fondamentale, cosi come includere nelle campagne di lotta obiettivi politici che possano liberare la scienza e riportarla tra le masse.

Ennio Carbone

NOTE

[1] https://www.istat.it/it/files/2018/09/Report-Ricerca-e-sviluppo_Anni-2016_2018.pdf

[2] Vedi AGAR, J., The Royal Society J. Of History of Science, 20 settembre 2017.

[3] HOOKE, Robert, De Micrographia, 1665.

[4] http://www.scienceonthenet.eu/content/article/francesco-aiello-michele-bellone-luca-carra-sergio-cima/science-and-innovation-italy ; https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/R_%26_D_personnel

[5] https://dottorato.it/content/indagine-adi-2019

[6] https://eige.europa.eu/publications/gender-equality-index-2019-italy

[7] “ Italy’s Rise in Research Impact Pinned on Citation Doping”, in Nature, 13 settembre 2019.

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