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Yemen, una guerra dimenticata

Yemen, una guerra dimenticata

Sono quasi cinque anni che in Yemen, nazione che occupa la punta meridionale della penisola arabica, infuria una guerra devastante che lascia senza speranze i suoi abitanti. Chi aveva mezzi e/o appoggi è già fuggito altrove; restano circa trenta milioni di persone intrappolate nel conflitto, stremate dai bombardamenti, dalle violenza, dai ricatti, dalla mancanza di cibo, acqua potabile e medicinali, dal colera e da altre malattie.
Le dinamiche e gli attori del conflitto sono molteplici: all’interno del paese persistono ataviche lotte tra clan e tribù rivali, rivendicazioni separatiste d’ogni genere, milizie autonome spesso affiliate ad Al Qaeda, interessi economici fortissimi, contrasti politico-religiosi che alimentano odio e follia, diffusa consuetudine all’uso delle armi come mezzo assolutamente privilegiato per la risoluzione dei conflitti.
In sintesi, il nord del paese – compresa la capitale Sana’a, è sotto il controllo militare e propagandistico degli Houthi – una fazione sciita-zaydita che intende imporre un governo presieduto da un Imam.[1] A sud, invece, si è asserragliato un comando provvisorio guidato dall’ex presidente Hadi, fuggito in Arabia Saudita e di lì rispedito nella città portuale di Aden, in maniera da poter vantare, per i propri scopi propagandistici, l’esistenza di un governo repubblicano filo sunnita.
A complicare la faccenda, dominano sul tutto le mosse furbesche di Iran ed Arabia Saudita. Da un lato, l’Iran si dedica a sostenere ed a fornire armi agli Houthi, in quanto ha tutto l’interesse nell’assicurarsi un alleato che agevoli il passaggio delle sue petroliere nel Mar Rosso ed il traffico d’armi verso l’Africa. Dall’altro lato e di conseguenza, l’Arabia Saudita è coinvolta in prima persona, preoccupata della crescente avanzata sciita direttamente a ridosso dei suoi confini, ha agito diplomaticamente per assicurarsi l’appoggio di una coalizione arabo sunnita, la quale, il 15 marzo 2015 ha sferrato un primo attacco aereo volto a bombardare il territorio yemenita.
La faccenda, in teoria, non avrebbe dovuto risultare difficile per la coalizione guidata dall’Arabia Saudita che, con tutti i costosissimi armamenti che compra in continuazione dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Unione Europea e, si dice, da Israele, possiede il terzo esercito al mondo per qualità dell’equipaggiamento. Secondo i calcoli di Riad, infatti, la “piccola guerra” – come così letteralmente era denominata dal regime saudita – sarebbe dovuta durare qualche settimana, giusto il tempo di annientare le basi strategiche degli Houthi, giungere facilmente alla vittoria e dare così seguito all’ambizioso progetto di divenire la potenza egemone del Medio Oriente.
Invece, nonostante ventimila bombardamenti su infrastrutture, centrali elettriche, scuole, ospedali, mercati, campi, strade, porti, aereoporti, passano gli anni e gli Houthi resistono, si nascondono, sfuggono, si riorganizzano e contrattaccano. Riad allora si è trovata impantanata in una sorta di Vietnam arabico: visto il disastro politico-militare, la coalizione sunnita si è pian piano disgregata ed è saltato l’asse di ferro tra sauditi ed Emirati Arabi Uniti. La cosa è facilmente comprensibile, osservando la conformazione geografica dello Yemen, occupato in larga misura non da pianure e deserti come spesso ci si immagina, ma da altopiani ed alte montagne, anche oltre i tremila metri: la stessa capitale Sana’a si trova a duemila metri sul livello del mare. Insomma, il territorio è perfettamente adatto alla guerriglia di rimessa.
A luglio di quest’anno, poi, Abu Dhabi prende al decisione di appoggiare un gruppo indipendentista dell’area a sud-est del territorio yemenita (dove un tempo regnava incontrastato Bin Laden): al momento attuale la zona è sconvolta da una guerra diretta tra le forze degli Emirati Arabi Uniti e l’esercito filo saudita di Hadi, con le forze legate ad Al Qaeda come terzi incomodi.
La puzza di bruciato e le nuvole di fumo nero che fuoriescono dai pozzi di petrolio colpiti dai droni sciiti offuscano ancora di più l’arroganza saudita. Per questa guerra, che nessuno vuole perdere e che nessuno riesce a vincere, si profila persino la minaccia nucleare: da un lato, l’Iran non ha mai davvero mollato il discorso di uno sviluppo in tal senso e, anzi, negli ultimissimi tempi lo ha rimesso chiaramente in calendario dopo l’attacco al generale iraniano Solemani, mentre dall’altro lato l’amministrazione Trump ha da poco approvato il trasferimento di tecnologia nucleare americana ai sauditi, tramite un gruppo di aziende provate di cui non si conosce l’identità.
Intanto nei territori oggetti del conflitto tutte le parti in lotta bloccano gli aiuti umanitari, perché esse ricorrono all’affamamento delle popolazione come scientifico metodo di guerra. La creazione continua di vittime della fame, l’esposizione delle immagini di bambini scheletrici malati ed in fin di vita, sono l’arma più subdola della propaganda, arma utilizzata da entrambe le parti in conflitto che se ne rimandano reciprocametne la responsabilità. L’Arabia Felix – così chiamavano lo Yemen gli antichi romani – sta morendo lentamente nell’indifferenza generale: quello che sta avvenendo a causa e per mano di un’accozzaglia di perversi narcisisti è lo sterminio di un popolo intero.
Un popolo questo, lo yemenita, che sconta anche la sua posizione strategica: l’Africa si trova a meno di trenta chilometri dalle sue coste e, di conseguenza, negli anni passati si è progettato – e la cosa sta andando avanti – il faraonico progetto del “Ponte del Corno d’Africa” che unirebbe due continenti con due nuove città commerciali/hub agli estremi del ponte. Una questione che ha una molteplicità di aspetti che svisceremo in un prossimo articolo.

Saltamontes

NOTE
[1] In occidente si direbbe genericamente uno stato di tipo teocratico ma, relativamente ai contesti storico-politico-religiosi della zona, gli sciiti-zayditi dal punto di vista ideologico-religioso si differenziano dallo sciitismo classico, ad esempio dell’Iran, in quanto non riconoscono l’infallibilità dell’Imam, consentendone la destituzione nel caso di un governo ingiusto.

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