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Mare Nostrum, para bellum!

Mare Nostrum, para bellum!

Questo articolo si inserisce in un quadro di analisi geopolitica fin qui condotta in una serie di articoli, aventi come soggetto le mire espansioniste della Turchia, tanto nel discorso di ampliamento nei Balcani e verso Cipro,[1] quanto nelle ambiziose aspirazioni verso le zone a sud del Mediterraneo.[2] Partendo quindi dalle “esigenze” espansioniste di un singolo Stato, si vuole qui cominciare una disamina più organica dei sommovimenti degli ultimi tre lustri, per comprendere la situazione attuale nella sua complessità e fornire una lettura dei futuri scenari che si apprestano a ridisegnare gli equilibri di un’area geografica sulla quale si riversano le aspettative di tre continenti. Che il Mediterraneo stia riacquistando una centralità strategica tanto per il commercio quanto per il rafforzamento delle infrastrutture, spina dorsale e tessuto connettivo del processo di integrazione globale, è un punto sul quale è difficile non concordare. Che questo interesse si estrinsechi con accordi commerciali “supportati” da una crescente presenza militare, che a vario titolo affolla ogni giorno di più tanto le sponde quanto le acque di un mare di anno in anno sempre più ambito, non è neanche esso un gran mistero per nessuno.
I soggetti pronti a contendersi lo sfruttamento della logistica e delle catene estrattive non solo sono in numero sempre maggiore, ma si fanno sempre più agguerriti. Alcuni di essi sono scossi, o lo sono stati nel recente passato, da forti conflitti interni che hanno ridisegnato l’assetto e l’equilibrio geopolitico della zona sud est dell’intero Mare Nostrum. Altri dopo alcuni scossoni, tipo le primavere arabe, hanno visto un incremento della loro produzione indotta da investimenti in settori strategici e capitali esteri; miracoli delle rivolte! I paesi facenti parte dell’area denominata MENA (Medio-Oriente e Nord-Africa) soprattutto Marocco, Egitto, Turchia, Tunisia e Cipro, hanno accelerato la loro produzione in campo chimico, automotive, energia e ICT (Innovative Communication Technology),[3] diventando esportatori da e per il continente europeo. Salvo il Marocco e Cipro, le altre nazioni debbono buona parte della loro attuale condizione all’uso delle forze armate, vuoi per essere di fatto repubbliche militari (Egitto), vuoi per essere paesi aggressivi nei quali l’apporto delle forze armate è decisivo nell’equilibrio interno oltre che tattico per le mire espansioniste (Turchia), vuoi per avere di fatto i militari all’interno dei partiti (Tunisia).
Tralasciando per ora il discorso delle forze armate europee e NATO (ci torneremo con un articolo dedicato vista la loro complessità incomprimibile in queste righe), restano in ballo alcuni soggetti che pur non affacciandosi direttamente sul Mediterraneo hanno comunque molti interessi in quest’area. Il primo soggetto è la Cina, che alla voracità per gli approdi associa una certa propensione al rafforzamento della sua dotazione militare, soprattutto in termini di naviglio. Attraverso la China Ocean Shipping Company, (COSCO) la Repubblica popolare cinese sta facendo man bassa di attracchi in giro per il mediterraneo, sia acquisendo quote partecipative, sia acquistando per intero Hubs strategici. Attualmente la COSCO possiede o controlla oltre al Pireo (100% Cosco), Valencia (51% Cosco), Vado Ligure (40% Cosco), Bilbao (40% Cosco),[4] senza contare i recenti accordi con Trieste. Ciò trova una sua ratio nel raddoppio del canale di Suez, facente parte della strategia della Belt Road Initiative (BRI), anche nota come nuova Via della Seta.
Questa nuova condizione fa del mediterraneo la nuova porta per il commercio e i mercati occidentali, nuove infrastrutture che avranno bisogno di spazi fisici o aree giurisdizionali su cui snodarsi. Ma questa non è che una parte del processo in atto – difatti la Cina non è il solo soggetto interessato a poter liberamente agire sul e nel mediterraneo. Troviamo ora la Russia che attraverso una serie di azioni predatorie sta estendendo la sua influenza nell’area Sud-Est dell’area mediterranea. La Russia arriva in quelle acque passando dal Bosforo, grazie al colpo di mano che le ha garantito l’annessione della Crimea con il relativo porto di Sebastianopoli (2014) ed il successivo rafforzamento del porto di Tartus in Syria, storicamente una base logistica dei tempi del patto di Varsavia. Guadagnando posizioni strategiche in posti chiave, come le porte del Medioriente e il corridoio tra la Libia e la Turchia, proponendosi come venditore di tecnologia militare (terrestre, aerea e navale) e godendo di una eredità storica di commercio e relazioni con il Medioriente e con il Nord-Africa, la Russia pur non intervenendo direttamente nella mischia gioca un ruolo di primo piano.
Marocco, Egitto e Algeria annoverano nelle loro flotte alcuni sottomarini di fabbricazione russa,[5] così come la Turchia annovera tra i suoi armamenti tecnologia russa per quanto riguarda i sistemi antimissile. La Russia non si limita a piazzarsi in posti strategici ed a mercanteggiare in armamenti ma, forte della sua possibilità di transitare nel Mediterraneo, tra il 2013 e il 2015 ha avviato una serie di esercitazioni nelle quali ha dispiegato il grosso della sua flotta (compresa quella del Baltico). Nel 2015 le esercitazioni furono programmate in forma congiunta con la marina cinese, sotto il nome di “Mare Unito”; queste operazioni assunsero la forma di una ufficializzazione della presenza della marina russa nell’area sud-Orientale del Mediterraneo ma lanciarono anche un altro forte segnale, ossia quello di un “asse di riequilibrio” russo-cinese, in risposta alle alleanze nippo-statunitensi.
Lo stesso posizionamento che la Federazione Russa è riuscita a crearsi in Medioriente pone il paese nelle condizioni di doversi affacciare nel Mediterraneo. La Russia ha una fitta rete di rapporti diplomatici con tutti i paesi dell’area, ha avuto la capacità di intessere profondi rapporti con Israele come con la Siria, con l’Iran come con la Turchia. In Siria si pone come forza esterna necessaria per un qualsiasi accordo di pace che possa andare oltre a una tregua di pochi giorni. Questa capacità è stata costruita sia tramite azioni di soft-power, accordi commerciali, scambio di favori e informazioni tra agenzie di intelligence, sia dimostrando una capacità di proiezione militare in Siria, con migliaia di uomini e mezzi aeronavali e terrestri schierati nel giro di pochi giorni, che hanno sancito il ritorno in grande stile di Mosca nella regione e l’affermarsi come potenza con ambizioni globali, in grado di sostituire gli USA, che oramai considerano il Medioriente come un pantano da cui sottrarsi.
Gli interessi Russi nel Mediterraneo sono strettamente collegati ai meccanismi della rendita petrolifera. La Russia è uno dei maggiori produttori globali di idrocarburi ed anela ad una maggiore penetrazione nel mercato Europeo. Il corridoio est/ovest a Nord, quello che passa dai paesi Baltici verso Germania e Francia ed a sud verso l’Italia, insomma i principali paesi manifatturieri d’Europa, è difficilmente percorribile dato lo strettissimo legame tra i paesi baltici e gli Stati Uniti, legame rinsaldato dalla rapida integrazione di questi nell’Alleanza Atlantica e dalla virulenta retorica revanscista e antirussa messa in campo dai governi dell’area. Diventa fondamentale, a questo punto, l’utilizzo dei corridoi balcanici e meridionali per esportare la materia prima da un paese con forti capacità estrattive e produttive ma con scarso mercato interno verso l’Europa, che ha una sete insaziabile di idrocarburi, nonostante l’annunciata Green Economy.
Da questa descrizione portata avanti solo per accenni, si evince come i conflitti economici necessitano del supporto militare, non però nei termini di uno mero strumento aggressivo: questa è una lettura che seppur calzante non restituisce la complessità del funzionamento della riproduzione del capitale in questa fase storica. Nella fase di stagnazione economica e dei redditi medi in caduta libera, quando anche il mattone non svolge più la sua storica funzione di volano e quando infine il debito per il welfare “viene fatto pesare di più” rispetto agli investimenti in tecnologia bellica, pur rappresentando una spesa dieci volte inferiore, allora si comincia a guardare alla macchina militare come al nuovo volano globale dell’economia. Un volano un po’ strano in quanto risucchia energie anche (soprattutto) nelle fasi passive, sembra però che l’indebitamento per le spese militari sia un debito che forse impensierisce assai meno, come fu per la Grecia “invitata” ad acquistare sottomarini Poseidon, carri armati Leopard 2A6 Hel, missili Stinger e i caccia F-15. Prodotti da Krauss-Maffei Wegmann, casa Tedesca. Il Fondo Monetario Internazionale all’epoca fece eco alle richieste di Junker di non tagliare le spese militari.
Sono questi gli episodi che rivelano gli interessi dietro e, spesso, al cuore dei conflitti. L’imperare di conflitti funzionali alla stabilizzazione o alla destabilizzazione di aree strategiche ha sempre un codazzo di aziende e partecipate di varia natura, pronte ad accelerare la produzione. Un tempo si discuteva su come spartirsi la ricostruzione delle aree devastate, oggi si preferisce il conflitto permanente fintanto che non sia chiarito come spartirsi il territorio: la Siria ne è un esempio classico. Il problema si pone nelle macro-aree come la zona Sud-Est del Mediterraneo, dove con tanti interessi in contrasto permanente è difficile capire quali saranno gli sviluppi già da qui ad un anno. Gli approdi della Belt and Road Initiative, il transito dei gasdotti, le rotte commerciali, la concorrenza Nord-Africana eccetera, nel momento in cui la situazione non trova un equilibrio, il che appare abbastanza difficile – visto e considerato che dal 2012 al 2018, sono state attuate 381 misure protezioniste,[6] di cui circa la metà fra paesi che affacciano sul bacino stesso – l’opzione militare sembrerebbe la carta che queste menti gloriose sanno mettere in campo per non rallentare i flussi di capitale e salvare un sistema in crisi permanente.
Gli ultimi quindici anni hanno rimarcato la centralità del Mediterraneo, ma soprattutto che una delle aree più ricche del mondo, l’Europa – estrema propaggine occidentale del continente euroasiatico – non può sostenersi solamente sui traffici atlantici. L’emergere delle economie dei paesi nord-africani che si affacciano sul bacino mediterraneo che vanno integrate nell’economia europea, il ruolo acquisito da Russia e Turchia, il disimpegno statunitense dal Levante per concentrarsi sullo scenario del Pacifico e, in prospettiva, Artico, hanno cambiato le carte in tavola rispetto agli anni novanta. La guerra e la politica sono in un rapporto post-clausewitziano: se per il grande teorico militare prussiano, imbevuto di idealismo hegeliano, la guerra era continuazione della politica con altri mezzi, grande duello tra stati organici ma pur sempre sottomessa agli obiettivi politici che venivano determinati da chi deteneva la sovranità, oggi assistiamo a una sempre maggiore integrazione tra l’ambito della politica e quello del militare.
Non è un processo nuovo, anzi, affonda in profondità le sue radici nel Novecento ma oggi si rinverdisce: il militare diventa volano dell’economia e della ricerca, sia di base sia applicativa con uomini con formazione militare che passano senza soluzione di continuità dalle forze armate alla Pubblica Amministrazione o al management privato – non è un caso che aziende come Amazon ricerchino personale con esperienza nella sussistenza militare per gestire i propri centri logistici – si lega saldamente con le grandi aziende parastatali. Emblematico è il caso dell’ENI. Supera in capacità di previsione e di determinazione degli obiettivi di lungo periodo gli stessi governi: significativa è la critica rivolta dallo stato profondo italiano, ENI e militari, ai governi, felpati o in grisaglia, che si sono mostrati incapaci di gestire con fermezza la crisi libica.
La stessa gestione dei flussi migratori, che ha alla sua base la determinazione a non aprire canali di migrazione accessibili, viene demandata a missioni militari, sul confine marittimo, come l’operazione Mare Nostrum, come in profondità nel continente africano, con missioni in Niger. Per uscire dal teatro mediterraneo non si può dimenticare come lo strumento militare sia, tanto nella storia quanto al giorno d’oggi, strumento principe per rendere sicure le rotte commerciali. Missioni come quelle antipirateria, che hanno coinvolto un’area marittima estesa dalle coste somale fino a quelle indiane, come ben sanno i pescatori indiani finiti mitragliati della marina italiana, con il loro corollario di morti mostrano come per tenere attivi i flussi logistici alla base delle Global Value Chains (GVCs) l’opzione militare non sia affatto secondaria. Come non lo è nella corsa all’accaparramento delle materie prime, come ben dimostrano vicende come quella del golfo del Niger dove la rendita petrolifera delle grandi aziende energetiche mondiali è garantita manu militari dal genocidio degli Ogoni da parte dell’esercito nigeriano. Si può anche fingere di dimenticare la guerra ma la guerra difficilmente si dimentica di noi.

JR e Lorcon

NOTE
[1] “Quanto resta della note?”, Lorcon, UN, anno 99, https://www.umanitanova.org/?p=10840
[2] “La Turchia nella situazione geopolitica dell’area del mediterraneo”, JR, Lorcon, UN, anno 100 n° 2
[3] COFACE, “Le nuove rotte commerciali del mediterraneo passeranno dal sud e dall’est della regione” https://www.coface.it/News-Pubblicazioni/News-sul-mondo-Coface-Coface/Le-nuove-rotte-commerciali-del-Mediterraneo-passeranno-dal-Sud-e-dall-Est-della-regione
[4] Startmag, “tutti i dettagli sulla presenza cinese nel Mediterraneo”, https://www.startmag.it/mondo/tutti-i-porti-cinesi-nel-mar-mediterraneo-e-altre- storie/
[5] CASD, IM, CeMiSS, “Strategia marittima ed interessi nazionali: rinnovata presenza militare e penetrazione economica della Federazione Russa in Mar Mediterraneo e nel Mar Nero” https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/DocumentiVis/Rcerche_da_pubblicare/pubblicate_nel_2018/Ricerca_AM_SMD_02.pdf
[6] Ibd. COFACE.

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