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Lo spillover del profitto

Lo spillover del profitto

Nell’articolo che apre il libro Philippe Bourrinet comincia col sottolineare che, nel passato, le grandi pandemie hanno sempre segnato i grandi passaggi epocali o, diremmo noi, i cambiamenti del modo di produzione. Così è stato per la “peste di Giustiniano” che devastò le coste del mar Mediterraneo dal 541 al 767, segnando la definitiva fine dell’impero romano. Ancor di più la peste del 1300 – che fece circa 30 milioni di morti, cioè almeno un quarto della popolazione di Europa e dintorni – segnò il passaggio dal Medioevo all’epoca moderna, cioè dal feudalesimo al decollo del capitale commerciale.

Infatti le grandi epidemie sono state sempre molto legate agli scambi economici e commerciali. La peste del 1300, ad esempio, venne portata dai Mongoli che posero sotto assedio la città di Caffa, una colonia genovese in Crimea. I genovesi, seguendo le loro rotte commerciali portarono il terribile bacillo in Europa e verso il nord, fino in Scandinavia. Ma “se allora furono necessari tre anni perché la peste passasse dalla Crimea alla Norvegia, oggi, all’epoca della globalizzazione del capitale (e del coronavirus…), si deve ragionare in termini di settimane”.[1] Quindi la domanda che viene posta implicitamente ed anche esplicitamente nel libro è la seguente: la pandemia di Covid-19 può segnare l’inizio della fine del modo di produzione capitalistico? Naturalmente non stiamo parlando del prossimo futuro: stiamo parlando dei braudeliani tempi lunghi della storia ma quello che conta è la prospettiva in cui ci si pone.

La diffusione delle pandemie, oltre che al commercio, è legata strettamente alla guerra. Tipico è il caso dell’influenza “spagnola” che si diffuse in tre ondate nel 1918 e 1919, colpì tra un terzo e la metà della popolazione mondiale e fece almeno 40 milioni di morti. Il virus della “spagnola” era del tipo H1N1, cioè una combinazione di un ceppo influenzale umano e di un ceppo influenzale aviario, vale a dire un progenitore delle influenze aviarie apparse dall’inizio degli anni 2000.

Contrariamente a quanto dice il suo nome la “spagnola” non partì dalla Spagna; il nome con cui è passata alla storia è dovuto al fatto che la Spagna non partecipò alla prima guerra mondiale, per cui sulla stampa spagnola di allora si possono trovare notizie dell’epidemia, mentre sulla stampa delle altre nazioni in guerra la censura militare aveva imposto un assoluto silenzio. La “spagnola” sembra invece essersi diffusa negli Stati Uniti, a partire da una remota contea del Kansas rurale ed isolata salvo che, a poche decine di chilometri da essa si trovava un campo militare molto affollato, dove venivano addestrati i soldati in partenza per l’Europa. Le Autorità erano state avvisate dell’insorgenza di questo inizialmente modesto focolaio epidemico ma, in quel momento, l’Amministrazione Wilson aveva la guerra come priorità. I soldati contagiati vennero spediti in Europa, dove diffusero l’epidemia, in maniera estremamente rapida, nelle trincee e nei quartieri più poveri e sovraffollati.

D’altra parte alle origini delle attuali pandemie degli anni 2000 possiamo trovare un altro tipo di guerra: la guerra permanente del capitale contro la natura. All’inizio dell’era industriale Jean-Baptiste Say, imprenditore cotoniere ed esponente dell’economia classica, considerava le ricchezze naturali come inesauribili e gratuite per il capitale e non c’è motivo per ritenere che gli odierni capitalisti la pensino diversamente. Non la pensava così Engels che nel 1882 scrisse: “Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria (…) Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo come carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo”.[2] È però negli ultimi 40 anni, a partire dalla grande crisi capitalistica degli anni ’70, che la ricerca spasmodica di profitti in ogni angolo della terra ha portato alla attuale devastazione ambientale che è alla base anche della attuale pandemia Covid-19.

Di questa devastazione parlano i redattori di Chuang in “Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina”, quando parlano dell’attacco ai “substrati microbiologici della vita sulla Terra”.[3] Di questo attacco fanno parte gli sventramenti di territori per la ricerca frenetica dei metalli rari (gli ingredienti essenziali del cosiddetto Green New Deal), la distruzione della foresta pluviale amazzonica per produrre la soia ed i cereali transgenici necessari a nutrire gli animali rinchiusi in enormi allevamenti intensivi, il fenomeno conosciuto come land grabbing, cioè l’accaparramento di enormi quantità di terreni da parte delle multinazionali del cibo destinati alla coltivazione intensiva con uso di pesticidi cancerogeni come il glifosato di Bayer/Monsanto. Aggiungiamoci il riscaldamento globale, l’inquinamento ambientale, il cibo avvelenato in vendita nei supermercati, il sovraffollamento urbano nelle grandi metropoli e la diffusa malnutrizione. Inoltre dobbiamo considerare l’espansione capitalistica nella “natura selvaggia” e la devastazione nelle aree periferiche dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. Attraverso questo meccanismo sembra essersi realizzato il passaggio del virus SarsCov2 dal pipistrello al pangolino fino allo spillover, cioè al salto del virus verso la specie umana.

L’aspetto più sconvolgente della pandemia di Covid 19 è però il linguaggio da tempo di guerra che è diventato subito virale nei mass media di regime. Non si tratta qui di mettere in discussione alcune misure necessarie messe in campo, quanto l’inserimento di queste misure entro una cornice che richiama la simulazione di una situazione di guerra. Sul piano economico si sono verificati alcuni fenomeni che possono far ritornare alla mente situazioni tipiche di una “economia di guerra”: per esempio la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori o i disinfettanti per le mani.

Inoltre è comparso un altro fenomeno come la speculazione sui generi di prima necessità con relativo aumento dei prezzi. Abbiamo avuto poi una limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico. Tutto ciò comporta naturalmente un aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento sia delle emissioni dei titoli di Stato, anche se siamo tuttora lontani da situazioni di autarchia o di “debiti di guerra”.

Il tutto si tradurrà comunque in una crescita esponenziale dell’indebitamento sia pubblico sia privato. I debiti alla fine vanno comunque ripagati, come dimostra la crisi dei mutui subprime del 2008 o l’attuale diatriba sul MES, e naturalmente a ripagarli dovrebbero essere i lavoratori, mediante riduzione dei salari, nuove tasse e tagli alla spesa pubblica. In previsione di tutto questo l’emergenza coronavirus è stata molto utile per accelerare l’utilizzo dell’esercito “in funzione di ordine pubblico”, segnando una ulteriore militarizzazione del territorio. A tal proposito dobbiamo ricordare il rapporto “Urban Operations in the Year 2020” (UO 2020) pubblicato dalla NATO nell’aprile 2003 che, con largo anticipo, prevedeva proprio per il 2020 l’insorgere di crescenti tensioni economico-sociali o di rivolte all’interno delle grandi metropoli, alle quali si potrà far fronte solo con una presenza militare massiccia, spesso su periodi di tempo prolungati.

Dobbiamo tuttavia prendere in considerazione l’opinione espressa da Michael Roberts in un suo recente scritto.[4] Il blocco od il rallentamento della produzione a livello mondiale durante lo stato di emergenza ha provocato immediatamente il crollo della domanda di petrolio e del conseguente prezzo del greggio al barile, mentre in una economia di guerra la domanda di petrolio dovrebbe crescere, e molto, per sostenere lo sforzo produttivo bellico e le esigenze logistiche degli eserciti.

Dopo aver preso in considerazione quest’ultimo importante elemento dobbiamo concludere che, nonostante i fenomeni prima descritti, la situazione attuale non è quella di un’economia di guerra. Per lo meno non ancora. L’evoluzione verso una economia di guerra è una delle possibilità, anche se è lecito nutrire qualche dubbio su una certa progressione automatica. Per il momento la reazione capitalistica alla crisi consiste ancora nel mettere in campo eccezionali stimoli monetari nella speranza di far ripartire l’economia reale: costo del denaro prossimo allo zero, quantitative easing ,ogni sorta di garanzie sui prestiti, incentivi fiscali alle imprese. Tutte misure già prese dopo la crisi del 2008, che hanno prodotto un indefinito prolungamento della recessione e che anche in questa emergenza avranno lo stesso effetto, anzi con un ulteriore aggravamento.

Inoltre sembra, come sostiene Paul Mattick in un suo articolo del 1940, che anche la guerra abbia perso la sua capacità di risoluzione della crisi capitalistica. Mattick afferma: “Oggigiorno si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica (…) Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente”.[5]

Ora la guerra permanente si è svolta finora in aree capitalistiche semiperiferiche come il Medio Oriente, l’Africa o l’Afghanistan, per cui sorge il sospetto che la pandemia da coronavirus possa costituire un surrogato della guerra permanente che coinvolge invece i paesi capitalisticamente sviluppati. Un surrogato che è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo per i sacrifici sociali che comporta e troppo poco per risolvere la crisi capitalistica. Alla fine di questa storia non ci sarà una ripresa economica, ma neanche un crollo del capitalismo ma, probabilmente una accelerazione dei processi di crisi già in corso.[6]

Jacques Attali, ex consigliere socialista di Mitterand, citato da Philippe Bourrinet nel libro di cui si parla, preoccupato delle conseguenze economiche e politiche, davvero planetarie, della pandemia arriva a preconizzare: “Si dovrà per questo, predisporre una polizia mondiale, una condivisione mondiale e di conseguenza una fiscalità mondiale. Si arriverà allora, molto più in fretta di quel che avrebbe permesso la sola ragione economica,a gettare le basi di un vero e proprio governo mondiale”.[7]

Dobbiamo però smentire il politico francese citando ancora una volta Paul Mattick. Nell’ultima parte dell’articolo Mattick affronta un tema di grande attualità: la contraddizione fra mercato mondiale e stati nazionali. Nella sua visione la “riorganizzazione internazionale delle sfere di sfruttamento supera i confini nazionali (…) Ma le classi dirigenti degli stati nazionali si sono storicamente sviluppate in una maniera che esclude la possibilità di una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale (…) Eppure la vittoria dei monopoli non potrà mai essere completa e la questione nazionale non scomparirà mai (…) Proprio questo processo, anzi, non fa altro che illustrare una volta di più la completa incapacità del capitalismo di portare a compimento un riassetto davvero razionale dell’economia mondiale (…) Il capitalismo, dopo aver creato il mercato mondiale, è incapace di garantire per sé stesso una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale e di controllare i reali bisogni della produzione mondiale, rappresentando quindi un vincolo per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive umane (…) I giorni dell’economia capitalistica di mercato sono inesorabilmente contati, così come quelli del nazionalismo capitalistico, a meno che non venga creato un organo socio-economico per la regolamentazione cosciente dell’economia mondiale”. Però, sostiene Mattick, questa opera può essere portata a termine soltanto dal proletariato mondiale, essendo questa l’unica classe sociale i cui interessi non sono antagonistici nei confronti di una reale e cosciente collaborazione mondiale.

Per concludere ci affidiamo a una citazione di un articolo contenuto nel libro: “Il fatto è che questa epidemia è il prodotto di una crisi generale del capitalismo già in corso da tempo e, nello stesso tempo, un fattore di accelerazione di questa crisi (…) Ma come andranno le cose quando tutto questo sarà finito? Come già detto ci sarà una accelerazione della crisi già in corso. Qualcuno già parla di “grande recessione” e di ritorno agli anni ’30 del ’900. Fra giochi di borsa e politiche monetarie espansive i grandi gruppi finanziari troveranno il modo di incrementare la loro ricchezza. Le grandi multinazionali si concentreranno ancora di più per aumentare i loro profitti. La concentrazione capitalistica provocherà il fallimento di tante piccole e medie imprese con il conseguente aumento esponenziale della disoccupazione. Il debito pubblico e privato aumenterà ulteriormente e verranno messe in cantiere opere pubbliche distruttive per l’ambiente, come la TAV o il TAP. Riprenderanno fiato le tendenze “sovraniste” che invocheranno la chiusura dei confini con le relative coreografie patriottarde, anche se è ormai difficile rimettere in discussione la divisione internazionale del lavoro che si è affermata negli ultimi decenni (in Italia non produciamo più neanche le mascherine!). Si imporranno forme di governo autoritarie e decisioniste fino ad invocare la militarizzazione della società. Insomma, per parafrasare uno slogan di moda: NON ANDRA’ TUTTO BENE. Da parte nostra dobbiamo prepararci a dare risposte a una prevedibile radicalizzazione dello scontro sociale e a prospettare una fuoriuscita da un modo di produzione capitalistico sempre più distruttivo e mortifero.”[8]

Visconte Grisi

NOTE

[1] BOURRINET, Philippe, “Capitalismo, Guerre ed Epidemie” in Lo Spillover del Profitto, op. cit.

[2] ENGELS, Friedrich, Dialettica della natura – Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 192-193.

[3] CHUANG, Social Contagion – Guerra di Classe Microbiologica in Cina. Covid 19: Origini e Conseguenze, Edizioni All’Insegna del Gatto Rosso – Milano marzo 2020.

[4] Vedi anche, per una visione più generale, ROBERTS, Michael, Un’Economia di Guerra?, Trieste, Asterios, coll. “Volantini militanti”, n. 21, 20 aprile 2020. www.volantiniasterios.it/catalogo/uneconomia-di-guerra

[5] MATTICK, Paul, “La guerra è permanente”- http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è-permanente. Vedi anche un mio articolo con lo stesso titolo in Umanità Nova n. 29 del 28/10/2018.

[6] Per una critica della teoria del crollo vedi GIUSSANI, Paolo, “Lo Schema Numerico del Crollo del Capitalismo di Henryk Grossmann”, 1998.

[7] La citazione è tratta da un articolo scritto da Attali sul settimanale L’Express già durante l’epidemia del 2009. Questo articolo di Attali è stato segnalato da SANGUINETTI, Gianfranco, “Il dispotismo occidentale”, in “selvas.org”, domenica 19 aprile 2020.

[8] Le citazioni sono tratte dall’articolo di GRISI, Visconte, “L’Economia di Guerra al Tempo del Coronavirus”, in Lo Spillover del Profitto, op. cit.

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