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La piaga del militarismo

La piaga del militarismo

Ci troviamo a sfogliare le ricerche dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI – Stockholm International Peace Research Institute), un istituto internazionale indipendente che dal 1966 si occupa di peace studies pubblicando un rapporto annuale che rende accessibili i dati sugli armamenti, le spese militari, la produzione e commercio di armi, i conflitti e l’industria della difesa a livello globale.

Puntualmente possiamo verificare, dati alla mano, quanto le analisi, le ricerche e gli spunti che come antimilitaristi ci diamo per sostenere il nostro attivismo contro guerre e militarismo siano confermati. Mentre la propaganda governativa, indipendentemente dalle casacche partitiche indossate, persegue la solita politica repressiva internamente e predatoria a livello internazionale, tutte le fonti confermano le nostre istanze.

Inascoltate ormai da anni, dismesse da ancora più tempo da un movimento pacifista estinto, ancor più in tempo di Covid le mobilitazioni antimilitariste sono relegate a poca cosa, nonostante la pervicacia dell’arcipelago anarchico e di poco altro: entriamo però nel vivo di quanto ci aggiorna il SIPRI.

Nessun disarmo, la parola alle armi

Nel 2019 gli USA si sono ritirati dal Trattato del 1987 sull’eliminazione dei missili a gittata intermedia e breve (INF Treaty), la Russia si è auto sospesa nei confronti dello stesso Trattato. Nel febbraio 2021 scade inoltre il Trattato bilaterale del 2010 tra Russia e USA sulle misure per l’ulteriore riduzione e limitazione delle armi strategiche offensive (New START); ad oggi non c’è alcuna certezza sulla sua proroga.

La denuclearizzazione tra Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord) è al palo ed alla fine del 2019 l’accordo nucleare con l’Iran del 2015 (JCPA) è di fatto senza riscontri. Nel 2019 sono 32 gli stati con guerre e conflitti in corso: 2 nelle Americhe, 7 in Asia e Oceania, 1 in Europa, 7 in Medio Oriente e Nord Africa e 15 in Africa subsahariana.

Gran parte si svolgono in un singolo paese (conflitti intra-statali) tra forze governative ed uno o p più gruppi armati non-statali. Con più di 10.000 decessi associati al conflitto in un anno troviamo l’Afghanistan, lo Yemen e la Siria. Per quindici conflitti si parla di alta intensità con 1.000–9.999 morti in Messico, Nigeria, Somalia, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Iraq, Burkina Faso, Libia, Mali, Sud Sudan, Filippine, India, Myanmar, Camerun, Pakistan ed Egitto.
Classificati a bassa intensità cioè tra i 25 e i 999 decessi il resto.

Risulta un solo conflitto combattuto tra stati (gli scontri di confine tra India e Pakistan) mentre vengono considerati conflitti tra tra forze statali e gruppi armati che aspirano alla sovranità statale quello tra Israele ed i gruppi palestinesi e quello tra Turchia e gruppi curdi. Tutti i gravi conflitti armati e la maggior parte di quelli ad alta intensità sono stati registrati come internazionalizzati.
Nel 2019 in Afghanistan, Yemen, Siria, Messico e Nigeria sono morti 98.000 persone, di cui il 78% del totale sono associati al conflitto.

Guerre e conflitti hanno anche altre conseguenze che conosciamo bene: a inizio 2019 il numero di sfollati a livello globale era di 70,8 milioni (di cui 25,9 milioni di rifugiati). Milioni di sfollati e rifugiati causati dal protrarsi dei conflitti in Afghanistan, Repubblica Centrafricana (RCA), RDC, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Siria, Venezuela e Yemen, così come nella regione del Sahel.

Armi, armi e armi

La spesa militare a livello mondiale ha raggiunto i 1.917 miliardi di dollari, pari al 2,2% del prodotto interno lordo (PIL) globale. Con un aumento del 3,6% rispetto al 2018 e del 7,2% rispetto al 2010 la spesa militare globale nel 2019 è quindi cresciuta per il quinto anno consecutivo.
È cresciuta del 5,0% in Europa, del 4,8% in Asia e Oceania, del 4,7% nelle Americhe e dell’1,5% in Africa. Per il medio-oriente e per il quinto anno consecutivo neppure il SIPRI è stato in grado di fornire una stima della spesa militare totale in Medio Oriente.

USA e Cina rappresentano più della metà della spesa militare mondiale. Per gli USA, con un incremento per il secondo anno consecutivo di 732 miliardi di dollari, i soldi per gli armamenti sono stati 2,7 volte superiore a quella della Cina. Quella cinese è aumentata del 5,1% rispetto al 2018 e del 85% rispetto al 2010. L’Arabia Saudita è passata dalla terza (nel 2018) alla quinta posizione, l’India, con una spesa pari a 71,1 miliardi di dollari, ha portato per la prima volta il paese in terza posizione, mentre l’aumento del 4,5% della Russia l’ha portata dal quinto al quarto posto.

In Europa occidentale, la Francia è quello che ha continuato a spendere di più nel 2019, con una spesa militare di 50,1 miliardi di dollari, anche se l’aumento maggiore tra i primi 15 paesi è stato registrato dalla Germania, la cui spesa militare è cresciuta del 10% raggiungendo i 49,3 miliardi di dollari. Ricordiamo inoltre che nel 2014 i membri della NATO si sono impegnati ad aumentare il loro onere militare (cioè la spesa militare in percentuale del PIL) al 2% e a spendere almeno il 20% della loro spesa militare in attrezzature.

La necessita di modernizzare gli armamenti o di svincolarsi dalla Russia per la manutenzione dei sistemi d’arma già in loro possesso (e percepita come possibile minaccia) fa sì che i cinque paesi con l’aumento relativo maggiore rispetto alla loro spesa militare totale sono stati Bulgaria, Lituania, Romania, Slovacchia e Ungheria.

Anche il volume del traffico internazionale di sistemi d’arma è aumentato del 5,5% tra i quinquenni 2010/14 e 2015/19, raggiungendo il livello più alto dalla fine della Guerra Fredda. Il SIPRI ha identificato e monitorato 160 stati come importatori di sistemi d’arma tra cui i cinque importatori principali sono stati Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Cina, rappresentando nell’insieme il 36% del totale delle importazioni di armi.

La regione che ha ricevuto il maggior volume di sistemi d’arma nel quinquennio 2015/19 è stata quella di Asia e Oceania con il 41% del totale, seguita dal Medio Oriente che ha ricevuto il 35% del totale. I cinque maggiori fornitori di armi nel periodo 2015/19 sono USA, Russia, Francia, Germania e Cina che rappresentano il 76% del volume totale delle esportazioni globali. A partire dal 1950, USA e Russia (URSS prima del 1992) erano i principali fornitori di sistemi d’arma. Nel periodo 2015/19, le esportazioni statunitensi hanno coperto il 36% del totale (superiori del 23% rispetto al 2010/14). Chi ha ricevuto la maggior parte delle armi statunitensi nel periodo 2015/19 è stata l’Arabia Saudita, ricevendone il 25% (rispetto al 7,4% nel 2010/14).

L’Italia è tra le prime dieci, piazzandosi al nono posto (2,1% del totale) tra i maggiori esportatori d’arma di questo ultimo quinquennio e il maggiore importatore di produzione bellica made in Italy è stato l’Iraq. Nel 2015/19, la Corea del Sud è stato il primo paese dopo decenni a essere inserito tra i primi 10 fornitori pur non avendo mai fatto parte della classifica. I primi 25 stati in classifica forniscono il 99% delle esportazioni totali.

Gli stati nordamericani ed europei (inclusa la Russia) rappresentano l’87% di tutte le esportazioni di armi. L’occidente democratico e liberale ha il primato assoluto nelle vendite di strumenti di morte e distruzione, nonostante ami autorappresentarsi come modello di pace e benessere. Il SIPRI stima che il valore totale del commercio mondiale di armi nel 2017, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, sia stato pari ad almeno 95 miliardi di dollari.

L’antimilitarismo come ossigeno

Su Umanità Nova abbiamo sempre reso conto della consistenza del riarmo italico e degli investimenti in sistema d’arma ad alta tecnologia con tutto il complesso industriale e militare annesso, alle scelte governative di continuità nelle politiche predatorie sul piano dell’approvvigionamento di risorse e sfere d’influenza strategiche. Rimandando agli articoli più specifici già pubblicati mi preme fare due piccole riflessioni che ritengo oggi più che mai necessarie.

I dati fin qui esposti, una piccola e incompleta sintesi di quanto pubblicato dal SIPRI, conferma una tendenza che vede il militarismo sempre più insistente nelle nostre vite, non più solo in una proiezione globale che vede già e vedrà sempre più popolazioni vittime di guerre a più o meno alta intensità.

Le “nostre” di vite saranno sempre più coinvolte perché è evidente che la militarizzazione sociale è una conseguenza anche di una instabilità globale che il disastro ecologico, i cambiamenti climatici e le diseguaglianze di un sistema capitalistico in putrefazione non possono che intensificare.
Inoltre la pandemia globale in atto oggi (così come un’altra calamità domani) ci mostra come l’emergenza sia sempre un’occasione per mettere in campo ulteriori forme ed esperimenti di disciplinamento e controllo.

Il fronte di “guerra” interno quindi si sta rafforzando, non solo con dispositivi legislativi ad hoc come i vari decreti Minniti-Salvini hanno dimostrato, ma anche attraverso una passività sempre più diffusa e quindi un consenso indiretto rispetto alle politiche d’incremento di fabbriche e tecnologia bellica, concessioni di Basi militari ed esercitazioni interforze con tutta la conseguente militarizzazione dei territori.

Un fronte interno che drena tantissimi soldi e risorse sottratte ai servizi essenziali come sanità, scuole e reddito. Risorse mancanti che oggi potrebbero rappresentare la salvezza di migliaia di vite umane, impossibilitate ad accedere alle terapie intensive e alle cure primarie. L’antimilitarismo oggi appare nettamente come metafora della vita contro la morte, in ogni senso possibile.

An Arres

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