Search

Le relazioni inconfessabili

Le relazioni inconfessabili

Il confronto tra Armenia e Arzebaijan ci offre l’opportunità di riavvolgere il filo della matassa del Risiko mediorientale ed in particolare nella regione del Caucaso, che sta assumendo e sempre più lo assumerà, un ruolo strategico fondamentale, non solo a livello locale ma anche sul piano geopolitico globale.

La regione caucasica, periferia estrema del continente euroasiatico è un bimillenario punto di incontro tra l’Asia e l’Europa, un esempio di “archeologia etnica” che rende di non semplice valutazione sia il passato sia soprattutto il presente. Per dare una lettura (tra altre possibili) della situazione attuale occorre partire da valutazioni che mettano in primo piano la questione energetica ed i conseguenti assetti geopolitici dei vari attori sia regionali sia a livello globale.

Tale prospettiva non esclude di netto le valutazioni di carattere etnico e confessionale. Non si vuole negare che il Caucaso è un crogiolo, spesso indistinto senza netti confini geografici, di culture che si sono nel tempo sovrapposte. Troviamo etnie che rappresentano la stratificazione di culture diverse, come gli Adighi, meglio conosciuti come Circassi, di religione musulmana di etnia non araba che parlano ebraico e scrivono in cirillico. Vi è una delle più antiche comunità ebraiche, quella degli Jihuro, diffusa tra il Caucaso meridionale e l’Azerbijan. L’etnia Azera, una delle più numerose, è presente in maggioranza al di fuori dei confini della “madre patria” e sono tra i 15 e 18 milioni gli azeri insediati nell’Iran settentrionale.

Non vogliamo nascondere che il richiamo dell’identità confessionale è sempre stato presente ed attivo sullo sfondo delle vicende storiche regionali. I conflitti tra Armeni ed Azeri sono sempre riemersi nei periodi in cui si sono dissolti i grandi imperi che di volta in volta hanno controllato la regione ed in qualche modo “anestetizzato” i latenti conflitti. Siamo i primi a sottolineare che la scelta di Stalin di sciogliere nel 1936 la Repubblica Federativa Sovietica Transcaucasica, nata dall’unione delle repubbliche sovietiche di Georgia, Armenia ed Azerbijan, ridando “indipendenza” alla tre distinte unità statali, stabilendo confini che non tenevano in modo conto di una omogeneità etnica e culturale, fu una causa dei conflitti che hanno investito la regione sin dall’era post sovietica sino ad oggi. Stalin, di fatto, si comportò nei confronti della periferia sovietica Euroasiatica, nello stesso modo con cui l’imperialismo inglese e francese si spartirono, l’area mediorientale, cioè creando entità statali che contenevano al loro interno inevitabili contraddizioni che furono poi le premesse per i futuri conflitti. Non voglio pertanto negare il peso, il retaggio storico, di quanto sopra detto ma ritengo che l’esame di fattori che attualmente condizionano la regione, innanzitutto la questione energetica, giochino ora un ruolo più determinante che non i lasciti del passato.

Nel tentativo di mettere dei punti fermi nella vicenda occorre partire dalle relazioni “inconfessabili”. Il recente conflitto caucasico ha visto, sul piano militare, il successo Azero: tale risultato è stata la conseguenza di una supremazia tecnologica targata Israele. Secondo uno dei più quotati analisti del settore industriale militare, lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Israele avrebbe fornito, nel periodo dal 2006 al 2019, più di 825 milioni di dollari in materiale militare, in particolare sistemi missilistici e soprattutto i mezzi aerei “remoti” droni, tra i quali l’ultimo ritrovato tecnologico IAI HAROP, prodotto da uno dei leader del settore l’israeliana Loitering Missile (LM). L’Azerbaigian poi produce da tempo i propri mezzi arei remoti (UAV) utilizzando la tecnologia israeliana. Non deve stupire allora se l’Azerbajan è uno dei principali clienti dell’apparato industriale miliare israeliano: i legami economici tra i due paesi sono profondi e vitali considerato che Tel Aviv importa dall’Azerbaijan, il 40% del suo fabbisogno petrolifero.

L’energia è il filo di Arianna che ci consente di posizionare le pedine nella loro corretta posizione nell’intricato scacchiere del Caucaso e di svelare altre inedite “alleanze”. Ci pare opportuno tratteggiare le tre principali vie energetiche azere per poi valutare i loro effetti sulla equilibri geopolitici regionali e globali. Nell’Azerbaijan sono tre le principali artiere energetiche, le pipline Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), la linea Balu-Novorossiysk e l’oleodotto Baku-Supsa. Il BTC, che opera dal 2006 ed è gestito da BP British Petroleum quale maggior azionista, scorre per 1.100 Km dai campi estrattivi del Marc Caspio per poi approdare nel mediterraneo attraverso Georgia (l’Italia è il maggior importatore di greggio azero). IL BTC è anche utilizzato per l’esportazione del petrolio del Kazakistan (attraverso il Mar Caspio). L’oleodotto Baku-Supsa, scorre tra l’Azerbaijan e la Georgia, gestito da BP, mentre l’oleodottto Baku-Novorossiysk collega il territorio azero con quello russo. Per quanto riguarda i gasdotti il principale è il South Caucasus Pipilene (SCP) che si snoda parallelamente all’oleodotto BTC per poi collegarsi alla rete di gasdotti turca. Di secondaria importanza è il gasdotto Gazi-Moagomed-Mozdok che connette il territorio azzero con la Russia.

Accanto alle pipeline operative sono di rilevanza strategica i progetti dei transiti energetici. Tra questi il maggiore è il Corridoio Meridionale del Gas (SCG) composto da tre sezioni: il South Caucasus Pipeline (tratta tra il Caspio l’Azerbijan e la Georgia, il TANAP (via turca) ed il più noto TAP (tratta tra Grecia-Albania-Italia). Si tratta del maggior investimento energetico degli ultimi tempi. Per la messa in opera dei 3.200 Km sono previsti investimenti per 45 miliardi di USA Dollari. Partecipano all’iniziativa undici multinazionali, tra le principali l’azera SOCAR la BP e l’italiana SNAM. Ad opera conclusa l’ SCP sarà il terzo fornitore di gas in Europa, dopo la Russia ed il Nord Africa.

Tali corridoi energetici (sia quelli operativi sia quelli in progettazione) ci portano ad una considerazione di fondo dal punto di vista geopolitico. Le pipeline più significative sono al di fuori del controllo russo e rappresentano un diretto concorrente per Mosca. L’oggettivo ruolo anti Russo dell’Azerbaijan fa entrare in scena un altro inedito alleato di Baku cioè gli USA. Le pipeline caucasiche sono l’opportunità per gli USA di sciogliere o quanto meno allentare i nodi che attualmente legano, per la dipendenza energetica, l’Europa alla Russia. Un vecchio continente, quanto meno sul suo lato meridionale, sempre meno dipendente da Mosca è uno degli obiettivi americani.

L’interesse USA per il Caucaso ed in particolare per l’Azerbaijan è alimentato anche dalla particolare sua posizione geografica, incuneato tra la Russia, Georgia e Iran, che rappresenta un centro strategico fondamentale per tenere sotto controllo Per l’Iran ed il vicino Afganistan, i percorsi delle pipeline caucasiche rafforzano inoltre il ruolo strategico della Turchia che di fatto diventa un Hub energetico fondamentale per l’Europa. Erdogan ha in mano le chiavi dei flussi di petrolio e gas e questa posizione di forza contribuisce ad alimentare il progetto di una zona d’influenza Panturca che dal mediterraneo si estende sino all’ estremo oriente.

Contrapposto a questo variegato ed inedito fronte anti Putin, il cui collante è rappresentato dall’“oro nero e blu”, vi è sempre l’energia che cementa il fronte contrapposto. Israele, USA, Turchia ed Azerbaijan hanno in comune un avversario: l’Iran. I più fedeli alleati della repubblica islamica sono invece la Russia, la parte sciita dell’Iraq ed Assad. Anche in questa alleanza, però, gli interessi energetici giocano un ruolo fondamentale. Il legame tra Putin, Assad e le teocrazia iraniana è rappresentato dal progetto dell’Islamic Pipeline: il gasdotto nasce in territorio iraniano per poi attraversare le enclave sciite irachene, la Siria controllata da Assad ed infine approdare nel “porto amico” di Tartus, situato sulla sponda mediterranea siriana, dove è situata la più importante base navale militare russa.

L’energia sciita, per Mosca, è meno “concorrenziale” rispetto a quello azera. Mosca può concordare con Teheran una politica dei prezzi in una posizione di forza, considerato che l’Iran può contare solo sulla Russia quale alleato di peso nel panorama geopolitico globale, sino a quando non ci sarà una concreta apertura della UE nei confronti dei preti iraniani o cambierà (vedremo) la politica mediorientale della nuova amministrazione americana.

Questo è il quadro che si sta delineando ma non sarebbe completo se non con due ultimi tasselli. Il primo è la necessità dei due principali attori regionali, Russia e Turchia, di non alzare il livello di scontro. Erdogan e Putin, pur concorrenziali nel’area caucasica, sono costretti a stringersi la mano ed ancora una volta è l’energia la vera ragione. La Turchia importa il 50% del suo fabbisogno di gas dalla Russia. È quindi conveniente un accordo per spartirsi le zone siriane (il prezzo lo pagano i curdi) e per un cessate il fuoco tra Armenia ed Azerbaijan. L’ultimo tassello per completare il quadro è il prezzo del petrolio. La quotazione del greggio, ormai stagnante su valori che sono un terzo dell’era pre crisi (2008) sta cambiando il panorama geopolitico di tutta la regione mediorientale. I media hanno commentato i recenti accordi tra Israele con il Bahrain ed Emirati Arabi, come la necessità di creare un fronte anti iraniano. Questa ragione è solo una parte della questione. L’altra parte, quella a mio avviso più rilevante, è che sta finendo l’era dei guadagni “facili” per i produttori di energia, soprattutto quelli che hanno costruito, come i paesi del golfo, società basate sulla distribuzione a pioggia delle rendite petrolifere. Il prezzo del greggio ora non consente più un mantenimento di un modello sociale ed economico che garantiva stabilità e consensi. È giunta l’ora per le petrolmonarchie del golfo, la nuova governance saudita insegna, di trovare alternative economiche alla monocultura petrolifera e gli accordi con Israele sono da inquadrare in questa prospettiva. L’obiettivo non è la “pace” ma garantirsi la continuità del potere del potere ed i privilegi.

Sotto il profilo più globale, un improvviso stop alle esportazioni di gas e petrolio azeri non causerebbe fluttuazioni eccessive nei prezzi. Questo vale soprattutto per il petrolio, visto che l’emergenza coronavirus ha generato un surplus nella disponibilità di oro nero tale da consentire un’immediata compensazione.

Israele continuerà a condurre la sua politica nel Caucaso con fermezza secondo la logica della realpolitik. L’atteggiamento israeliano si è sempre fondato su una convinzione anzi su un dato di fatto di natura geografica: Israele circondata da nemici deve procurarsi alleati dovunque questi si trovino, soprattutto se questi alleati possono essere utili per sconfiggere il suo nemico storico, l’Iran.

Daniele Ratti

Articoli correlati