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Demografia ed ecologia

Demografia ed ecologia

“… comunque siamo in troppi su questo pianeta.”

Quando si parla di ecologia, spesso la discussione va’ a finire con la frase: “Comunque, siamo in troppi su questo pianeta.” Un’affermazione comune che mette in correlazione scienze della demografia e dell’ecologia. Un’affermazione comune la cui critica suscita quantomeno scetticismo.

Carl Schmitt, teorico della sovranità e dello stato d’eccezione, giustamente affermava (1950) di come le regole si debbano giudicare dalle eccezioni; affermazione che, riletta con lo sguardo libertario, si dovrebbe tradurre nella domanda: “cui prodest?”, “chi privilegia?”.

Gli studi sociologici hanno ben messo in evidenza la correlazione inversamente proporzionale fra famiglie numerose e sicurezza sociale, ovvero redistribuzione del reddito, educazione universale, sanità universale.

Siccome qui parliamo di impatto ecologico quantitativo dell’essere umano nell’ecosistema terrestre che lo circonda, dovremmo ricordarci che il peso di questo impatto è disomogeneo: città vs campagna, ceto ricco vs medio vs povero, produzione vs consumo. L’affermazione “siamo in troppi” si riferisce proprio a questi ultimi, i consumatori: troppe bocche da sfamare, troppe automobili, …

Ai nostri occhi eurocentrici è meglio avere pochi figli e più denari e cure. Questo perché corrisponde al numero ottimale per la nostra società in questo momento. Tradotto in pratica si parlerebbe soprattutto di nazioni in crescita come Pakistan, India, Nigeria, Indonesia… Insomma, chi dovrebbe figliare meno sarebbero soprattutto le popolazioni del “sud” del mondo, quelle che hanno subito la violenza del colonialismo e la conseguente impiantazione coatta del capitalismo e del libero mercato, con tutti gli effetti nefasti che ne derivano. Popolazioni povere che esportano migranti, la cui mortalità infantile è altissima, molto religiose, i quali diritti politici e sociali sono perlopiù negati.

Nel sud del mondo, più mani corrispondono ancora a più soldi per l’autosostentamento del nucleo familiare, che può comprendere: bambini, genitori e nonni non in fascia produttiva; disabilità di tutti i tipi; reclusi… Più figli, maschi che possano emigrare in paesi ricchi preferibilmente, equivalgono ancora a più risorse per tutta questa fetta gigantesca di popolazione.

“Dato che l’impronta ecologica media di uno statunitense è pari a quella di 36 indiani (Stephan Lessenich, 2019), dunque 35 indiani sarebbero ecologicamente più sostenibili di un solo statunitense?”

Proviamo a leggere il problema in un’ottica diversa attraverso un altro dato statistico: l‘emissione dei gas serra – prima causa del surriscaldamento globale e dei mutamenti climatici ad esso connessoaggregata a livello globale della produzione di energia, della cementificazione e dei trasporti – che consumano spazio all’agricoltura e alle foreste ed inquinano l’ambiente pesa per il 70% rispetto al resto delle attività umane (David Graeber, 2020). Ne dovrebbe conseguire che il vero problema è un modello di sviluppo infinito sbagliatissimo rispetto ai limiti intrinseci legati alla disponibilità di risorse naturali – che annovera fonti non rinnovabili ed implica la preservazione di delicati e complessi equilibri ecologici –. E’ la volontà di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura, più che la scelta etica individuale di noi consumatori (siamo sempre liberi di scegliere? Magari!). Meno poveri, meno ricchi, più sanità pubblica, più educazione, più democrazia, sono in conflitto con i privilegi della classe padronale, che dirotta le risorse pubbliche in una logica assistenziale a beneficio di pochi, pochissimi ed esternalizza i danni su molti, moltissimia cui se ne imputano le responsabilità morali (sprechi, inquinamento, troppi figli).

La responsabilità morale è all’ordine del giorno nell‘industria culturale: il capitalismo etico/l’etica capitalistica sta catturando sempre più la nostra attenzione con pink washing, green washing, black washing.. persino il problema della fame nel mondo è stato manipolato. La Banca Mondiale ha usato questo tema come imperativo alla base della propria campagna per lo sviluppo di nuove economie capitalistiche – le stesse che poi han creato nuove povertà e disastri ambientali. (Vananda Shiva, 2001) Il Fondo Monetario Internazionale poi indebita gli stati puntualmente colpiti dalle crisi capitalistiche, in cambio di politiche di austeritydi tagli, di povertà, di morigeratezza, di dipendenza.. (Serge Latouche, 2004) E’ attraverso il colonialismo di vecchio e nuovo stampo se ci sono Stati ricchi con basso tasso di natalità e stati poveri e sovrappopolati. Non possiamo vivere meglio al costo degli altri.

E’ auspicabile che la popolazione, sic rebus stantibus, non accresca ulteriormente. Siccome non si può imporre un iniquo controllo delle nascite imponendo illiberali comandi dall’alto sulle popolazioni (come la Cina fino a qualche mese fa), si deve agire cambiando il sistema culturale, diffondendo un movimento incompatibile con la struttura teologico-capitalistica attuale. Agire politicamente con l’educazione e la ricerca e nelle forme di resistenza più opportune per ottenere laicità, scuola, sanità, reddito, parità di genere.

Non si può di certo sottovalutare la dimensione culturale: religione, patriarcato, contraccezione, aborto, inaccessibilità alla sfera dell’attività pubblica alle donne… il femminismo anche qui è una battaglia centrale.

“Non c’è spazio.”

Affermazioni da nazional-socialismo quali “non abbiamo spazio” e – ragionamento conseguente – “troviamoci un posto al sole” si confutano con dei semplici dati statistici. L’Italia è da tempo in calo demografico: si figlia meno, l’aspettativa di vita scende (dato statistico legato al fattore ecologico). Un dato statistico affine mostra come il Belpaese esporti più migranti italiani di quanti ne “accolga” entro i propri confini. Negli anni ‘60 il dato degli abitanti censiti di Trieste si attestava a più di 270.000 persone, mentre ora si attesta più o meno sui 200.000 abitanti. Infatti, le unità abitative sfitte a Trieste si calcolano sulle 40.000 unità.

Siamo ancora convinti che non ci sia spazio e risorse per altra umanità? E’ lecito pensare che il problema risieda altrove? Siamo sicuri di non partecipare ad un discorso che si traduca in una guerra fra “razze” e classi? Pensiamo che l’essere umano sia incurabilmente perduto o che sia necessario liberarsi dalle strutture gerarchiche?

Non mi stupirebbe che in una futura umanità liberata in un’utopia scientifica, quando le foreste saran ricresciute, i mari ripopolati, non ci saranno confini e galere, anche 10 miliardi di persone potrebbero essere sostenibili. Lascio dimostrare questo calcolo ai tecnici per una società libertaria ed ecologica. Nel frattempo concentriamoci sulla radicalità del mutuo appoggio.

un compagno del Caffè Esperanto di Monfalcone

Nota della redazione: in questo periodo di pausa del giornale continueremo a pubblicare interventi e articoli che giungono in redazione e che ci paiono utili per il dibattito.

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