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Le periferie, la rivolta, la mimesi impossibile

Le periferie, la rivolta, la mimesi impossibile

Siamo all’eterno ritorno dell’eguale. Una sequenza tanto prevedibile, quando illeggibile ai più, ormai assuefatti all’altalena dell’apri e chiudi, cui il governo pretende che ci abituiamo.
Proviamo a ragionarci. In questi ultimi mesi abbiamo più che raddoppiato il numero di morti della primavera, gli ospedali sono arrivati al collasso, la medicina territoriale è rimasta un nome di carta, i lavoratori che denunciano le politiche criminali dei manager sanitari vengono minacciati e sottoposti a sanzioni disciplinari.
Chi si ammala lavorando “sceglie” di non dirlo, per timore di perdere, oltre la salute, anche il lavoro.


Ciononostante i dati INPS, probabilmente sottostimati, ci raccontano che i casi mortali per contagio da Covid-19 sono pari a circa un terzo del totale dei decessi denunciati all’Inail dall’inizio dell’anno.
I provvedimenti governativi, lungi dal mettere a disposizione risorse per migliorare la risposta sanitaria, hanno continuato a puntare sulla dimensione disciplinare a sfondo “morale”. Coprifuoco notturno, chiusura di bar e ristoranti alle 18 sono il segno che la nostra vita si riduce al tempo di lavoro e poco più.


Rispetto alla primavera i provvedimenti adottati sono stati molto diversi, come diverse sono state le dinamiche di controllo territoriale da parte delle forze dell’ordine.
Nelle zone rosse, dove vigono regole simili a quelle di primavera, la gente ha continuato a girare negli spazi pubblici, senza il timore dei controlli capillari, che hanno segnato la prima ondata.
Le avvisaglie di insorgenza sociale emerse a fine ottobre hanno indotto il governo sia ad una nuova ondata di elargizioni temporanee, sia ad imporre una minore pressione poliziesca sulla popolazione. segnale
La temperatura della pentola sociale stava andando in ebollizione ed occorreva abbassarla in fretta. Le destre sovraniste e negazioniste avevano dato importanti segnali di saper interpretare gli interessi delle categorie sociali schiacciate dalla crisi pandemica e
della volontà di dar voce alla crescente insofferenza verso la compressione degli spazi di vita.
A dicembre ennesima giravolta: il governo concede un paio di settimane per le spese natalizie, si indigna per gli assembramenti ai negozi, poi chiude tutto. Tra innumeri manfrine attende che finisca l’orgia del consumo, prima che la parola torni alla polizia.


Tutti chiusi durante le feste di fine anno, affinché nulla fermi la produzione a gennaio.
Se in primavera i lavoratori avevano spinto alla chiusura con scioperi e blocchi, oggi nessuno si mette di mezzo. La crisi pandemica azzanna i calcagni di tutti: la paura di perdere il reddito è più forte di quella del virus, nonostante l’Italia sia il paese con maggiore mortalità sia in
relazione alla popolazione generale, sia in rapporto al numero dei positivi. Chi si ammala muore molto di più che altrove, perché la prevenzione e la cura sono peggiori.


Ovunque si allungano le file di poveri, senza casa, senza reddito. Per mettere insieme il pranzo con la cena, in tanti si adattano ad una miriade di lavori precari, sottopagati, in nero, senza tutele.
Se
non ci sono i soldi per il fitto e le bollette la tutela della salute diventa un lusso che pochi possono permettersi.
La crisi pandemica ha innescato una crisi sociale senza precedenti, dando fiato alle sirene del populismo, del nazionalismo, della chiusura identitaria, della negazione dell’epidemia.
Le misure di contenimento adottate dal governo hanno ridotto tanta gente alla fame, senza fermare il virus. Un virus che continuerà a correre finché la logica del profitto e della guerra sarà più importante delle nostre vite.


Lo spauracchio della “terza ondata” è un salvagente per la barca di Conte, sotto il costante ricatto del saltimbanco di Rignano e dello sfaldamento della compagine grillina, in fuga verso Lega, Fratelli d’Italia e la neonata Italia Libera, la formazione nata dalla fusione di Forza Nuova, Gilet Arancioni e settori negazionisti no mask.
L’unità bellica contro il virus, il patriottismo sanitario, sia pure in fase di progressivo logoramento, danno ossigeno ad un governo in perenne crisi di identità. Sul resto la navigazione è a vista. Niente di nuovo: il mantenimento del potere nell’immediato è l’orizzonte più lontano cui riesca a guardare qualsiasi compagine governativa ormai da decenni.
Domenico Guzzini, il presidente di Confindustria di Macerata,
quando ha detto: “la gente è stanca di questa situazione, Bisogna riaprire. Se qualcuno morirà pazienza”, ha solo esplicitato pensieri ampiamente condivisi ma che non è opportuno dichiarare. Il profitto ad ogni costo è la ratio sottesa che rende irrilevante persino la sopravvivenza.


Il mito dello sviluppo è la narrazione fondante che consente alla logica del profitto di imporsi su qualunque altra possibile narrazione del mondo. Al punto che oggi, di fronte ad una lista di morti che si allunga, non sono pochi quelli che pensano che, in fondo, i morti sono un prezzo accettabile, che produzione e consumo non possono essere né fermati né rallentati.
Si corre verso il precipizio ma il furto di futuro non è più considerato un male ma il prezzo necessario al presente eternizzato che i più vogliono continuare a vivere. Persino quelli che alla tavola imbandita del capitale riescono a sedersi solo di rado.

Questi ultimi dieci mesi sono stati un laboratorio dove sperimentare tecniche di controllo sociale, impensabili un anno fa. Il ricatto della pandemia ha permesso al governo di limitare ogni libertà riducendo le nostre vite al mero produci, consuma, crepa.


I movimenti di opposizione sociale nel loro complesso non sono stati capaci di elaborare strategie di resistenza alla gestione militare della pandemia, capaci di far saltare il gioco truccato di chi, ancora oggi,
promuove le grandi opere, la produzione e il commercio bellico, puntando tutto sulla compressione della vita di relazione, che non sia mediata dal consumo, che non sia mercificabile.
A fine ottobre all’annuncio delle prime disposizioni governative e regionali che imponevano chiusure, blocchi, coprifuoco, poi sfociate nel lockdown moderato e differenziato per aree geografiche decretato il 3 novembre, il clima sociale all’ombra della Mole ebbe brevi ma intensi momenti di perturbazione.
Vale la pena proporre una cronaca ragionata delle principali piazze torinesi, che in quel periodo, da osservatori o da partecipanti critici, abbiamo in buona parte attraversato. Scenari analoghi potrebbero ripresentarsi ed amplificarsi nei prossimi mesi.


Lunedì 26 ottobre.
Erano passati due giorni dal DPCM che sanciva la chiusura di bar e ristoranti alle 18. A Torino da due giorni suonava il tam tam della rivolta napoletana. Sui media si moltiplicavano appelli alla mobilitazione dal sapore agre.
A mezz’ora una dall’altra
venivano lanciati due appuntamenti. Alle 20,30 in piazza Castello, alle 21 in piazza Vittorio. Poche centinaia di metri separavano le due piazze, ma sul piano simbolico erano molte di più.
Piazze complesse, in cui si intersecavano interessi politici e sociali differenti, frammentati, spuri. Coglierne sino in fondo le dinamiche non è facile.


C’erano le categorie colpite dal dpcm del governo, che riduceva drasticamente l’attività di bar e ristoranti, la chiusura dei teatri e delle palestre, la criminalizzazione di ogni attività notturna. La natura disciplinare del provvedimento si confermava nel coprifuoco notturno, che presto verrà esteso a tutta la penisola. Dopo le 22 veniva vietata anche una semplice passeggia
ta: tutti agli arresti domiciliari, sotto sorveglianza speciale. Misure in genere adottate per tenere in scacco oppositori politici, inscritti nella categoria vischiosa ed extragiudiziale della pericolosità sociale, vengono estese all’intera popolazione.
I commercianti colpiti dalla crisi erano in entrambe le piazze. In piazza Vittorio,
alla manifestazione “borghese”, sostenuta da Maurizio Marrone, consigliere regionale di Fratelli D’Italia, c’erano anche ultras con cori da stadio e Forza Nuova. Si tenevano lontani dal Palazzo della Regione: le loro invettive erano dirette solo contro Conte, non toccavano Cirio e la sua giunta, di cui i fascisti di Fratelli d’Italia sono parte.
Tutt’altra scena in piazza Castello: chi vi arrivava era accolto dal fragore delle bombe carta. Il biglietto da visita di una serata che finirà in rivolta per le vie del centro.


Una componente borghese, che si teneva lontana dagli scontri, ma plaudiva e si univa agli slogan a braccio teso gridati dalle prime file, c’era anche nell’area tra Palazzo Madama e la Regione.
L’anima militante della piazza erano i drughi della Juventus, ultras di estrema destra che strappavano lo striscione che alcune componenti di movimento avevano portato in piazza. Volavano pugni, calci, bottigliate.


Mescolati a quest’insieme magmatico, anomico e bollente anche “compagni” venuti ad annusare l’aria. Alcuni volevano capire cosa stesse bollendo in pentola, altri invece sedotti dall’aspettativa che la piazza deflagrasse.
Qualche settore del movimento anarchico e, sia pure con diverso angolo prospettico, dell’area post-autonoma, coltivava la speranza che la crisi pandemica portasse ad un caos sistemico, offrendo occasioni a chi tifa rivolta.
La polizia rispondeva alla pressione sul palazzo della Regione con cariche e lacrimogeni. Poi il fuggi, fuggi di tanti.
Le cariche sospingevano i manifestanti verso via Roma, via Po, piazza Carlo Alberto, piazza Carignano, piazza San Carlo, dove numerose vetrine andavano in frantumi e alcuni negozi venivano saccheggiati. Cesti dell’immondizia rovesciati, sanpietrini divelti, il fragore delle bombe carta.
La scena se la prendevano gruppetti di ragazzi, in buona parte maschi, che dilagavano per il centro. Salta
vano le vetrine dei negozi di lusso in via Roma: qualcuno arraffava qualcosa, una borsetta, un paio di scarpe, quello che capitava.
La questura subalpina è stata colta alla sprovvista? Difficile dirlo. Resta il fatto che non era stata disposta la consueta blindatura degli accessi a vie e piazze
limitrofe. Dispersi in una miriade di gruppetti, i manifestanti più determinati hanno tenuto il centro per oltre due ore, prima di disperdersi verso le periferie da cui provenivano.
I protagonisti della serata
erano loro. Il giorno dopo alcuni si raccontavano sui social con foto e commenti esaltati.


Nel centro cittadino si
era riversato il malessere delle periferie, dove l’identità di stadio, di palestra, l’amicizia da bar suona più forte di quella di classe, perché chi non ha né lavoro né prospettive ha reciso alla radice la percezione di se come sfruttato. La possibilità stessa di una comunità di lotta si disperde nelle mille storie precarie, sradicate nel tempo e nello spazio, incapaci di connettersi se non occasionalmente. In questi quartieri le destre arano il terreno da anni: hanno aperto sedi, si insinuano nei bar, sono sempre più forti allo stadio. Difficile dire quanto riescano a “rappresentare” chi fa fatica ad arrivare a fine mese, i giovani senza presente, gli anziani che sopravvivono a stento.


Di certo il richiamo di “libertà” contro le
ulteriori chiusure del DPCM ha avuto un forte impatto su chi, quando tutto era ancora “normale”, non aveva valvole di sfogo, al di là di giardinetti, bar e sale giochi.
Nelle settimane successive piazza Castello sarà in più occasioni teatro di manifestazioni grandi e piccole. Presidi di categoria, negazionisti e nemici della DAD, lavoratori dello spettacolo, partite IVA e ambulanti. Si tratta per lo più di piazze rivendicative, agite dai pezzi di ceto medio e lavoratori esclusi dalle elemosine del governo.
Fratelli d’Italia si
sono rigiocati senza successo la carta di piazza Vittorio: il decreto ristori ha messo la sordina alle proteste dei commercianti.
Sabato 7 novembre, primo sabato di zona rossa per il Piemonte, la piazza se l’era presa un insieme eterogeneo e in parte discordante di gruppi della diaspora post comunista, centri sociali, ed anche alcune componenti della galassia anarchica della città.


L’illusione della mimesi delle piazze populiste, porta alla scelta dell’anonimato politico, nella speranza di attrarre a se frammenti delle piazze animate dalle destre in versione “popolo”.
Ma non funziona, non può funzionare, e, per dirla tutta, non è neppure auspicabile che funzioni.
La stanca riproposizione di una prospettiva welfarista ormai inattingibile è motivo conduttore di buona parte della piazza.
Il gruppo della FAI torinese partecipa all’iniziativa ma non ne condivide lo spirito. L’autonomia dall’istituito è la scommessa che oggi più che mai anima l’intervento di piazza di compagni e compagne.
Nel confronto con la destra, la sinistra statalista esce con le ossa rotte. Incapace di cogliere il malessere delle periferie, la cui narrazione è sempre più stabilmente colonizzata dalle destre, che mescolano istanze sociali con un identitarismo escludente abile e pervasivo. Vi si mescolano i temi “classici” contro l’immigrazione con l’opposizione ai processi di globalizzazione finanziaria, al mercato globale, all’esternalizzazione delle produzioni. La patria come luogo caldo, nido protettivo, spazio
dove recuperare l’illusione che vi sia un posto al sole per i “poveri ma italiani” diviene il cardine di un discorso pubblico, che ha sfondato la linea Maginot di luoghi dove in un passato ormai sepolto pascolava la sinistra autoritaria.
La strada è in salita, serve lucidità. Conte ci ha confezionato il
suo “pacco” di Natale.


Serve un salto di paradigma, la rottura con la tradizione testardamente statalista, che segna la sinistra torinese, è un’urgenza che la pandemia ha reso più forte.
La riproposizione di un patto tra stato e classi subalterne non ha né la forza sociale per imporsi, né la capacità di ri-costruire un immaginario sociale forte. Specie in un’epoca segnata dalla costante rinegoziazione delle poche tutele sopravvissute alla stagione di lotte degli anni Settanta del Novecento. Ci si avvolge nella spirale di una continua trattativa al ribasso di vite costantemente precarie. La precarietà in se è solo la condizione sociale necessaria a mantenere bassi i salari, ma finché viene percepita come normale da chi ne è investito, diviene un’orizzonte intrascendibile.
Delegare allo Stato l’educazione, la salute, i trasporti, la scelta sul “bene comune” ha portato su una china scivolosa, che la crisi pandemica non ha fatto che accelerare.
Le vite dei poveri sono vuoti a perdere, vite senza valore, sacrificabili. Vite che non valgono fuori dalla gabbia di produzione e consumo.

Si tratta oggi di coniugare radicamento e radicalità, di costruire percorsi di sottrazione conflittuale dall’istituito, moltiplicando le reti di solidarietà e mutuo appoggio, agendo il conflitto per l’allargamento degli spazi di autonomia.
Vivere meglio non è una gara tra chi campa e chi muore, ma una possibilità che gli oppressi e gli sfruttati possono offrire a se stessi.


Torino, 23 dicembre 2020
Federazione Anarchica Torinese
anarresinfo.org

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