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La pandemia ha cambiato tutto

La pandemia ha cambiato tutto

Ripetere più volte le stesse tesi finché le mere ipotesi non si trasformano in dogmi. Appiattire la conoscenza e l’immaginazione battendo sul tasto del There is no alternative. Trattare come pazzo o ignorante chiunque si discosti dall’ortodossia trasformata in legge divina e, se quelle presunte norme inviolabili falliscono, allora si incolpano le “esternalità”, le cause esterne, per cui i loro metodi e ricette sono esonerati da ogni errore e peccato: se la mano invisibile non funziona è perché c’è qualcosa che non lo permette. Così è stata forgiata la corrente economica dominante degli ultimi decenni con l’intero capannone finanziario al servizio del capitale. Il 2020 ha però cambiato tutto.

Questo non sarà uno di quegli articoli che descrivono la fine del capitalismo: chi lo gestisce ha enorme potere ed un grande vantaggio su di noi, inoltre il suo rinnovamento ed il suo persistere è già stato forgiato nella crisi precedente. Il 2020 ha però mostrato i fallimenti del sistema e cercare di comprenderli è la chiave per stabilire un’agenda politica e sociale che sia in grado di delineare un futuro migliore per tutti.

Il Covid-19 ha mostrato il re nudo mentre i suoi fedeli vassalli insistono per convincerci che invece è ancora vestito, anche se i suoi vestiti hanno bisogno di essere rinnovati. Un anno in cui persino il Papa sembra concedersi il lusso di indicare direttamente nel capitalismo e nei suoi dogmi la causa delle disuguaglianze nel mondo e dell’imminente crisi ecologica. Dove le istituzioni sempre a difesa delle loro regole divine sono state costrette a fare marcia indietro. Dove Hayek si eclissa e diventano tutti keynesiani. Come sempre, ci additano le “esternalità”, le cause esterne: siamo passati dal dare la colpa a chi “ha vissuto al di sopra delle sue possibilità” al “siamo costretti a prendere questa misura a causa del virus”, il tutto condito da tante notizie di giovani che bevono insieme per imprimere nella nostra mente l’idea che la colpa di una pandemia più lunga di quanto ci aspettassimo è di quei giovani e non delle metropolitane affollate e dei luoghi di lavoro pieni di addetti. Attenzione però: l’economia era già malata e il covid è stato solo una nuova scusa per giustificare i suoi fallimenti strutturali.

Pulsante “Pausa” all’Austerità

Era l’inizio di marzo e in Spagna ridevamo ancora di “quei cinesi totalitari che rinchiudono intere città per un’influenza” quando Jerom Powell e Christine Lagarde, direttori rispettivamente della Federal Reserve degli Stati Uniti (FED) e della Banca Centrale Europea (BCE), annunciarono che avrebbero fatto ciò che era necessario per sostenere un sistema economico che già soffriva e stava mostrando, sotto forma di ribassi globali dei mercati azionari, i primi colpi della nuova crisi. In Occidente non eravamo ancora consapevoli di ciò che stava accadendo dall’altra parte del globo e la nostra vita era del tutto normale ma i mercati erano già entrati nel panico totale.

Naturalmente, le banche centrali sono venute a soccorrerli. Tutte le banche centrali hanno annunciato pacchetti straordinari di misure che sostanzialmente si concretizzavano nell’iniettare enormi quantità di denaro nei mercati per cercare, ancora una volta, di “far fluire il credito verso le famiglie e le PMI”. Non era abbastanza. Le banche volevano che questi crediti fossero sicuri e così anche i governi sono venuti in loro aiuto a titolo di garanzia per i prestiti, come nel caso spagnolo con i crediti ICO (Istituto di Credito Ufficiale) garantiti dallo Stato centrale all’80-90% per il settore alberghiero.

Senza dubbio però il colpo più grosso alle ricette, applicate negli ultimi decenni ai paesi del sud e agli Stati dell’Europa meridionale, è stato quello annunciato venerdì 20 marzo dal presidente della Commissione europea. Von der Leyen con l’annuncio della sospensione del patto di stabilità e crescita. Il limite del 60% del rapporto debito/PIL, che quasi nessuno in Europa ha rispettato, ed il deficit del 3%, svaniscono davanti a un nuovo scenario ed una nuova crisi nonché davanti a forze politiche eurofobiche per cui applicare l’austerità avrebbe significato la decomposizione dell’Unione Europea e l’accrescersi di una profonda crisi economica di non facile soluzione.

La Commissione Europea, a denti stretti, ha rispolverato e messo in campo le ricette austericide applicate nella crisi precedente. Si è scoperto che le sacre regole della “stabilità economica” europea non erano altro che, come alcuni denunciano da anni, un assurdo legaccio al servizio della stabilità dei mercati finanziari e non degli Stati. Dopo il 2008 e la bolla immobiliare e finanziaria c’era spazio per inasprire quelle misure ma, in questa nuova situazione, l’inasprimento sarebbe fallito.

Il “mea culpa” dell’austerità dal corto respiro è stato imitato da tutti i governi che lo avevano precedentemente abbracciato. Anche le istituzioni sovranazionali, che sono state il braccio esecutivo di queste ricette, furono costrette a rettificare il loro mantra dominante. Solo un paio di giorni prima di Natale, il FMI ha pubblicato il suo documento finale della revisione economica annuale. Tra le sue analisi e raccomandazioni trapela un messaggio-chiave, qualcosa che molti economisti ed il FMI non hanno mai voluto prendere in considerazione per decenni, un cambio di paradigma non solo nelle politiche contro la crisi ma anche nella comprensione del destino dell’Economia globale.

Il FMI si è reso conto che saccheggiare attraverso l’austerità, insomma privatizzando tutto ciò che è pubblico, ed aprire i mercati, in altre parole aprire le porte ai saccheggiatori, andava bene quando si trattava di questo – cioè di sfruttare. Nella precedente crisi finanziaria iniziata nel 2008 queste misure di austerità sono state applicate ai paesi del nord e – oh, sorpresa! – hanno funzionato male così come nei paesi del sud. Hanno smantellato i servizi sanitari e di protezione sociale, hanno smantellato un settore promettente e necessario come quello delle energie rinnovabili, hanno abbassato le tasse sulle aziende e sui grandi capitali, ci hanno lasciati indifesi di fronte a nuovi impatti economici e indifesi, o comunque impreparati, di fronte a una crisi sanitaria.

Certo, lo dicono a denti stretti. Nessuno a Bruxelles osa dire ad alta voce che l’austerità non tornerà più o che gli obiettivi di deficit non dovranno essere raggiunti per svariati anni. In effetti, la soluzione salvifica alla crisi che viene proposta e adottata in Europa è: fondi per la ricostruzione dell’UE detti Next Generation, insomma la contrattazione di un prestito in cui le condizioni di rimborso rimangono ancora poco chiare. Anche stavolta, se non si opererà un cambiamento decisivo e coraggioso a livello europeo per quanto riguarda il destino della nostra economia, quella che viene presentata come una salvezza a breve termine potrebbe diventare la nostra tomba tra pochi anni.

La monocultura economica

La “distribuzione nella catena di produzione globale” o altri eufemismi per spiegare che i paesi sono stati indotti nella globalizzazione a specializzarsi in uno specifico tipo di produzione industriale, delegando la fornitura di altri servizi ai benefici del libero scambio, è un altro castello di carte crollato. La monocultura economica che in Spagna è rappresentata dal turismo è passata dall’essere il motore principale al diventare la sua tomba. La chiusura delle frontiere e la paralisi quasi totale del turismo ha defenestrato in un colpo solo la nostra economia, mostrando la debolezza di un Paese che ha fatto affidamento su un settore così sensibile agli shock internazionali. Le compagnie aeree vengono salvate, anche il settore dell’ospitalità turistica rivendica il salvataggio, migliaia di persone attendono il tragico destino della disoccupazione alla fine dell’ERTE [sussidio spagnolo simile alla italica Cassa Integrazione Guadagni – NdT]. Le prospettive lasciate dalla pandemia in un paese come la Spagna sono fosche e i fondi europei, destinati agli investimenti green e alla digitalizzazione, non risolveranno nulla.

Per quanto riguarda le catene logistiche globali, abbiamo lì anche assistito ai guasti del sistema. La fabbrica mondiale, la Cina, ha quasi completamente paralizzato la sua produzione industriale bloccando le sue città e i suoi luoghi di lavoro. Le catene logistiche di fornitura globali si stavano bloccando e disgregando e le aziende occidentali temevano una carenza di prodotti e componenti dai mercati asiatici che avrebbe influito sull’offerta. Non sapevano ancora che, un paio di settimane dopo la loro richiesta, saremmo rimasti chiusi a chiave in casa senza poter consumare.

I vantaggi della delocalizzazione produttiva indotti dalla globalizzazione sono stati annullati nello stesso momento in cui nei paesi europei mancavano DPI, respiratori o maschere, assistendo a vere e proprie aste d’acquisto negli aeroporti dove gli inviati dei vari paesi gareggiavano per un contenitore di prodotti non più fabbricati in Europa o negli Stati Uniti e, questo, ogni volta che un prodotto di base e necessario in una pandemia non arrivava sugli scaffali dei supermercati perché non era partito da un porto cinese.

Nuovi attori, stesso potere

Mentre le guerre commerciali per l’egemonia mondiale ci hanno fuorviato, la finanziarizzazione dell’economia ha solo compiuto un altro passo da gigante approfittando di questa nuova crisi. Le enormi quantità di denaro immesse nei mercati dalle banche centrali hanno solo ingrassato un’economia speculativa che ha poco o nulla a che fare con l’economia reale e con un’efficace ripresa dell’economia e dell’occupazione. Mentre la disoccupazione non si arresta e le persone compilano infinite scartoffie per ottenere il reddito vitale minimo, i mercati azionari di tutto il pianeta sono già ritornati ai livelli pre-crisi, trainati principalmente dai due settori che controllano il pianeta: quello finanziario e tecnologico.

Trump ha voluto dimostrare di aver difeso il suo modello “Make America Great Again” ma il suo obiettivo era in realtà salvare l’egemonia nordamericana nei confronti della Cina. Il modo migliore per ottenerlo è stato quello di salvare questi due settori immettendo liquidità come strategia cardine della sua potenza mondiale. I boss del mondo digitale, come Jeff Bezos o Mark Zuckerberg, hanno aumentato esponenzialmente la loro ricchezza durante questa pandemia. Grandi fondi statunitensi, come Black Rock, fanno affari proprio nei paesi più colpiti dalla pandemia. Alimentare i profitti aziendali con denaro, o con dati che vengono convertiti in denaro, è il metodo principale del capitalismo per mantenere lo status quo, e questa crisi non è da meno. Rendere visibile questo potere e il modo in cui gli stati lo sostengono è essenziale per immaginare nuove forme di lotta e resistenza contro questi poteri.

Se non funziona nella crisi, allora non funziona

La Germania ha garantito il finanziamento delle sue società nella corsa al vaccino con la sua partecipazione diretta. La Spagna ha imposto un limite al prezzo delle mascherine. Le banche centrali del Regno Unito o del Giappone hanno direttamente finanziato i rispettivi stati. Coloro che sostengono il non intervento degli stati nell’economia si sono (di nuovo) lamentati bussando alle sue porte chiedendo più soldi. Tutti i settori hanno chiesto il salvataggio pubblico. Tutto questo e molto altro ancora in pochi mesi, addirittura settimane, dalla crisi economica. Il capitalismo vanta una forza e una stabilità che non possono durare nemmeno due mesi senza doversi lamentare e chiedere aiuti pubblici.

Da tutto ciò occorre gettare le basi per un’economia rivolta maggiormente agli interessi delle persone piuttosto che agli interessi dei mercati finanziari. Dopo questa pandemia ci saranno delle conseguenze e, come già detto all’inizio, il capitale sta già plasmando la sua uscita e il suo nuovo assetto all’interno di una futura ripresa economica per non perdere il suo dominio. Da quelle ceneri dovrebbe però nascere un nuovo modo di intendere l’economia. Dai resti di quelle ricette fallite deve essere elaborato un nuovo modello economico. Abbandonare quei dogmi per creare nuove formule che mettano al centro la vita.

Che i postulati della nuova ripresa ci indichino come economia e scienza dovrebbero essere al servizio della società, con sistemi più resilienti alle crisi o in grado addirittura di evitarle, di come mettere gli interessi del pianeta al di sopra di quelli degli azionisti e che il capitalismo “a breve termine” dev’essere sostituito dalla necessità di creare un mondo vantaggioso per tutti. Poiché questa crisi ha dimostrato che il sistema attuale è debole, che i mantra ripetuti mille volte non sono veri e che i dogmi dell’economia sono appunto questo, dogmi, e che l’economia è, o dovrebbe essere, qualcos’altro.

Yago Álvarez Barba

Testo originale in: https://www.elsaltodiario.com/coronavirus/yago-alvarez-2020-ano-se-derrumbaron-mantras-dogmas-economia

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