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18 giugno. In strada contro muri, frontiere, repressione

18 giugno. In strada contro muri, frontiere, repressione

torinoTorino. Le nuvole hanno continuato ad addensarsi per l’intera giornata, ma per una volta in questo giugno che sembra novembre, non c’è stato il temporale. La giornata è cominciata al mattino al Balon con un presidio informativo su muri, frontiere, business del trasporto e dell’accoglienza, per proseguire nel pomeriggio con il corteo contro la repressione.
Il corteo, partito da piazza Castello, ha raggiunto Porta Palazzo e si è chiuso in piazza Crispi. Inizialmente era un momento della campagna di rifiuto dei divieti di dimora a Torino, dati a 12 antirazzisti, banditi per uno dei tanti episodi di lotta in città, una secchiata di merda alla Ladisa, la ditta che serve cibo ai vermi ai reclusi del CIE. Il corteo si è trasformato in manifestazione comunicativa contro le tante manovre repressive che investono Torino e le sue valli, perché martedì 14 il tribunale del riesame ha valutato l’insussistenza del reato di violenza privata, derubricando la secchiata di merda alla Ladisa a mero danneggiamento. Il reato di danneggiamento non comporta l’utilizzo di misure cautelari. I 12 banditi sono stati così liberati dal divieto di stare a Torino, al quale si erano pubblicamente ribellati la scorsa settimana, leggendo un comunicato collettivo ai microfoni di radio Blackout e scendendo poi a manifestare in strada.
Per una storia finita bene ce ne sono decine che mostrano la crescente attitudine ad utilizzare il concetto di “pericolosità sociale”, un dispositivo tipico del diritto penale del nemico, che colpisce i ribelli all’ordine costituito, indipendentemente dalla reale consistenza dei reati per cui viene chiesto il rinvio a giudizio. O, peggio, con strumenti come la sorveglianza speciale, la magistratura non si prende neppure l’onere di costruire un’inchiesta su fatti specifici, ma priva della libertà sulla base della personalità politica di chi ne viene investito. Per non dire delle centinaia di anni di reclusione inflitti a decine di attivisti a Torino e in Val Susa, spesso senza neppure la concessione della sospensione condizionale della pena.
A Torino la lotta contro la repressione negli ultimi 10 anni è stata patrimonio di minoranze molto attive di compagni, che avevano compreso il declivio vertiginoso sul quale si stava spingendo la Procura, sempre più impegnata ad usare, spesso torcendone il senso, tutti i meccanismi repressivi messi a disposizione dal codice penale.
Tanti altri avevano preferito puntare sulla sola continuità delle lotte, senza impegnare energie in campagne antirepressive specifiche.
Il corteo del 18 giugno ha segnato un allargamento del fronte della lotta contro le manovre repressive di polizia e Procura.
La sfida che ci attende è difficile ma stimolante.
La democrazia non ammette dissenso reale, se non a parole, questo noi lo sappiamo bene. É tempo che questa consapevolezza si allarghi anche a chi lotta, illudendosi che vi sia spazio per cambiare rotta all’interno del quadro istituzionale. Senza credere che vi siano scorciatoie, magistrati amici o poteri buoni.
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