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Sindacalismo di base: quale futuro?

Sindacalismo di base: quale futuro?

noworkSarebbe opportuno chiedersi perché, proprio in questa fase, alcuni compagni di area anarchica e libertaria sentano l’esigenza di porre il quesito “Quale futuro per il Sindacalismo di Base?”. Al momento, vorrei rispondere alle considerazioni di Mauro De Agostini, riservandomi d’intervenire successivamente su altri contributi che hanno affrontato la stessa tematica. Più che di una risposta, si tratta di puntualizzazioni, perché, non per permalosità, ma per chiarezza si è parlato, pur in modo defilato, dell’Unione Sindacale Italiana (USI-AIT), rischiando comunque di mettere tutti nello stesso calderone e questo non è utile se si vuol realmente aprire il dibattito “tra anarchici impegnati nel mondo del lavoro”.
Naturalmente, concordo pienamente quando De Agostini afferma, in riferimento all’arcipelago del sindacalismo di base, “che l’immagine complessiva non è molto positiva” e che “incipienti fenomeni di burocratizzazione hanno caratterizzato questi organismi fin dalle origini, favorendo lotte di potere, personalismi, scissioni e ricomposizioni di cui ormai si è perso il conto.” Sono le stesse critiche che l’USI-AIT porta avanti da sempre. Riguardo alla critica relativa alla riscossione delle quote associative tramite trattenuta diretta in busta paga (specie nel pubblico impiego perché nel settore privato non sempre è possibile ai sindacati non confederali effettuarla), valutata come elemento di “degenerazione burocratica” perché genererebbe “cospicue risorse che possono essere gestite dal centro”, tengo a precisare esplicitamente che così non è in USI-AIT, in quanto le risorse, per la maggior parte, vengono utilizzate dalle sezioni locali, intendendo per tali anche sezioni solo aziendali, per consentire un’autonomia nella pratica sindacale delle stesse. Questo è un modo per risolvere il problema evidenziato. Personalmente, per tre anni ho ricoperto la carica di Segretario Nazionale e ogni volta che mi spostavo per incontri di organismi quali la “Commissione Esecutiva” e il “Comitato Nazionale dei Delegati” mi pagavo di tasca mia le spese e lo stesso facevano gli altri membri che assieme a me si spostavano da Milano. Il non pesare sulla cassa comune era evidentemente una nostra scelta volontaria, perché lo Statuto prevede al contrario il rimborso. Altro che privilegi burocratici. E’ cosa risaputa che la scelta che ha fatto l’USI è quella opposta al principio dei funzionari pagati e questo sicuramente la differenza la fa. Per contrastare la burocratizzazione, rispetto agli altri sindacati di base in cui c’è un mancato ricambio dei “dirigenti” , quasi sempre gli stessi nel perdurare degli anni come riconosce lo stesso De Agostini, l’USI “è certamente immune da certe derive burocratiche” perché ogni tre anni si svolge il Congresso e, per Statuto, si pratica la rotazione degli incarichi per cui il Segretario Nazionale viene automaticamente sostituito. Il compagno De Agostini aggiunge in riferimento all’USI: “ma quanto alla tendenza al frazionismo ed alle scissioni non sta meglio degli altri”. Ma questo è un modo di esprimersi un po’ “pilatesco”. L’USI nasce nel 1912 da una scissione dall’allora CGdL, come dire attualmente CGIL, e nella sua storia, per mantenere la coerenza ai propri principi, ha dovuto pagare dei prezzi necessari, come l’allontanamento di dirigenti che di fronte alla guerra del 1915-18 erano diventati interventisti. Pertanto non si può negare, nel passato e in tempi più recenti, il ricorso alla “scissione” come necessità per mantenere la coerenza con i principi fondativi. Posso assicurare che all’interno dell’USI-AIT, nell’attuale fase, c’è la massima unità possibile e le differenze che possono esserci si ricompongono facilmente nella sintesi necessaria.
Poi De Agostini evidenzia: “Davanti al vergognoso Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 il fronte di opposizione si è rapidamente liquefatto e alcuni tra i più importanti sindacati di base (USB e Confederazione Cobas) non hanno tardato ad apporre la propria firma sotto l’infame documento.” Fatte queste affermazioni, si deve trarre le dovute conseguenze, perché cambia completamente il quadro precedente e cambiano anche radicalmente le condizioni nei rapporti unitari all’interno della galassia del sindacalismo di base. Questo ha comportato anche per l’USI-AIT un cambiamento in tal senso, ovvero, il ricercare, in occasione della proclamazione degli scioperi generali, la convergenza con i sindacati non firmatari dell’accordo citato. Così è stato per la proclamazione degli scioperi del 18 marzo e del 4 novembre dell’anno in corso.
Veniamo alla “ennesima ciliegina sulla torta”, come dice De Agostini:“USB indice in solitudine uno sciopero ‘generale’ per il 21 ottobre (con una piattaforma fortemente condizionata dalla campagna referendaria per il no)” in cui gli obbiettivi rivendicativi dei lavoratori, aggiungo, erano solo una appendice appiccicata. Facciamo una ulteriore precisazione: a dichiarare lo sciopero del 21 ottobre, con le stesse modalità, c’erano anche l’Unicobas e l’USI “scissionista”, attraverso una dichiarazione unitaria fatta tutta nella logica istituzionale di cui sopra, con un aggancio diretto alla manifestazione nazionale anti-renziana del 22 ottobre a Roma, promossa dai vari partitini della sinistra.
A questo punto non si può continuare a fare i “Ponzio Pilato”. Di fronte a tale realtà c’erano due scelte possibili per l’USI-AIT: infilarsi nel tritacarne di un sciopero predeterminato tutto inserito in una logica istituzionale, con l’evidente certezza di finire in quel calderone, oppure scegliere un’altra data per dimostrare che un altro modo di far sindacato alternativo è possibile. L’USI-AIT, con tutti i rischi del frazionismo, ha fatto questa scelta: quella del 4 novembre, l’unica possibilità rimasta per proclamare uno sciopero generale sui problemi veri dei lavoratori e delle lavoratrici. Pur presentando problemi di non poco conto, questa scelta ci dava l’opportunità di un’iniziativa antimilitarista, che era uno dei temi principali nella proclamazione dello sciopero. Altrimenti si sarebbe entrati nel vortice del referendum, praticamente rimandando il tutto a data da destinare. Non ci pareva giusto lasciare, come si dice, completamente la piazza in mano ad un “sindacalismo malato d’istituzionalismo” e abbiamo scelto quello che c’è sembrato il male minore.
Ci fa piacere che la Federazione Anarchica Italiana nel convegno di Reggio Emilia del 8/9 ottobre abbia scelto di sostenere lo sciopero del 4 novembre attraverso iniziative antimilitariste e attivandosi per una propaganda contro il referendum.
In conclusione, ringrazio il compagnio Mauro de Agostini per aver offerto occasione per queste doverose precisazioni. Concordo con lui che oggi, più che mai, è opportuno che il movimento anarchico e libertario nel suo insieme, alla luce di quanto sta avvenendo, approfondisca il dibattito sul sindacalismo di base, soprattutto da parte di coloro che sono coinvolti nel mondo del lavoro.
Enrico Moroni


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