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Dall'8 marzo al Lotto sempre

Dall'8 marzo al Lotto sempre

nonunadimenoChi l’8 marzo a Torino, ma mi risulta che ovunque la situazione è analoga, avesse guardato con un po’ di attenzione e nella consapevolezza che non è facile una valutazione accurata del retroterra sociale di una mobilitazione, avrebbe notato una composizione del corteo abbastanza particolare, un numero molto rilevante di giovani donne e, per la verità, sebbene forse in misura forse lievemente minore, di giovani uomini, un discreto numero di donne, diciamo così, di una certa età che sembravano femministe o quantomeno militanti politiche degli anni settanta ritornate alla visibilità pubblica, un discreto numero di uomini e donne appartenenti a quella che possiamo definire la sinistra diffusa più o meno organizzata, e col termine “sinistra” mi riferisco a un mondo che va dagli apparatniks della CGIL fino ai più corruschi sovversivi e, infine – e non a caso dico infine – un certo numero di lavoratrici e lavoratori non riconducibili a queste tipologie sociali ed umane.

Fatto salvo che l’area giovanile non era costituita solo da studentesse e studenti, e che ne facevano con ogni probabilità parte non pochi appartenenti al precariato diffuso, è assolutamente evidente che non erano le lavoratrici e i lavatori del pubblico impiego e delle medie e grandi imprese a dare il “tono” alla manifestazione, cosa che, in qualche misura, contrastava col carattere di sciopero della giornata.

Teniamo comunque conto del fatto che vi è un intero universo di lavoratrici e lavoratori del precariato diffuso, delle piccole e piccolissime aziende, del lavoro formalmente autonomo e in realtà subordinato, che non possono praticare la forma storica dello sciopero e che pure animavano quella piazza.

D’altro canto, la stessa scelta delle organizzatrici di collocare la manifestazione al pomeriggio rendeva immediatamente evidente che non contavano su una significativa adesione allo sciopero vero e proprio.

Pure, ritengo non vadano sottovalutati alcuni aspetti specifici dello sciopero/manifestazione quantomeno, e non solo, dal punto di vista simbolico e comunicativo.

In primo luogo, il solo fatto di avere lanciato la parola d’ordine dello sciopero e di avere trovato quantomeno una certa attenzione nel mondo sindacale di opposizione è una novità politica importante, il primo tentativo di intrecciare operativamente la contraddizione di genere con quella di classe, tentativo che non va quindi valutato nei suoi esiti immediati, ma assunto come un’ipotesi tutta da verificare ed esplorare.

In secondo luogo, è evidente che la seconda generazione femminista esprime un universo sociale, un sistema di relazioni e un insieme di prospettive che non possono essere appiattiti sul movimento femminista degli anni settanta, non foss’altro perché non è, come allora, una relazione fra un’élite semicolta e una massa indifferenziata ma un effettivo movimento le cui attrici e i cui attori sono diretta espressione della scomposizione della vecchia struttura di classe e del formarsi di un settore di un nuovo proletariato, scolarizzato e precarizzato.

Una riprova di questo suo carattere è la sostanziale mancanza del tradizionale separatismo di genere che per mille ragioni, non tutte sbagliate, ha caratterizzato, in Italia e non solo, il primo movimento femminista.

Per una piena comprensione dell’importanza di questo aspetto della mobilitazione è bene tenere presente la natura dinamica e non statica del processo di costituzione della nostra classe. Il fatto è che, sovente, il settore più conflittuale dei lavoratori e delle lavoratrici non è costituito dai settori proletari “tradizionali” disciplinati dalla consuetudine allo sfruttamento e inquadrati dagli apparati politici, statali, sindacali, ma da quelli che vivono la fase di proletarizzazione e che, per citare un vecchio modo di dire operaio, si sentono strappare la pelle.

Andando a un passato non troppo lontano, basta pensare alle lotte delle imponenti masse di operai industriali, spostatesi dalle campagne alle città e alla fabbrica, negli anni cinquanta, che hanno dato vita al ciclo di lotte dell’operaio-massa e, venendo ai tempi nostri, alle lotte dei lavoratori della logistica, fra le poche che in questi anni hanno positivamente mosso le acque stagnanti che caratterizzano l’attuale stato del conflitto di classe, il cui fetore ci ammorba.

La domanda politica che quindi dobbiamo porci è se la diffusa, estesa, vivace mobilitazione dell’8 marzo che si è espressa in molte manifestazioni in città di maggiore o minore importanza, può essere un’occasione per aprire una partita da un punto d’applicazione imprevisto, e proprio per questo più efficace di quelli consolidati ed usuali.

Sono certo che, a questo proposito, compagne e compagni più avvertititi di me rileveranno che sovente le grandi manifestazioni sono in realtà un addensarsi di solitudini, uno sfogatoio a cui segue la ricaduta nella passività e nella depressione, e – facendo i dovuti scongiuri – si tratterebbe di un’ipotesi che non può essere esclusa, per onestà intellettuale. Ma di quanto avviene noi non siamo semplici spettatori e puntigliosi analisti, ma, nei nostri evidenti limiti, attori in grado di esercitare una qualche influenza politica, sociale, sindacale.

Altri rileveranno, ed anch’essi hanno una qualche ragione, che non siamo di fronte a un movimento “di classe” chimicamente puro, ma, ancora una volta, è bene ricordare che le classi sociali, e in particolare la nostra classe, non sono morte grandezze economiche ma elementi costitutivi di una viva relazione fra dominanti e dominati, fra sfruttati e sfruttatori.

Se è così, ed io credo sia così, è il mettere in moto energie, il far saltare equilibri, lo sperimentare ipotesi inusuali, l’unica effettiva possibilità di toccare i nodi sensibili delle relazioni sociali dominanti, di incepparli, di individuare forme di lotta efficaci.

Chiarito appieno, negli evidenti limiti delle mie capacità, il mio convincimento che siamo di fronte ad un’occasione importante, ritengo valga la pena di porre l’attenzione anche sui caratteri e, purtroppo, sulle inadeguatezze delle diverse soggettività in campo.

Come è noto, lo sciopero è stato proposto ai sindacati, a tutti i sindacati, da una rete di collettivi di donne aggregatesi sotto la sigla “Non una di meno” e in ciò vi solo due evidenti elementi di fragilità: il primo è che un soggetto che chiede ad altri soggetti di porre in essere, o comunque di “coprire” da punto di vista legale, un’azione di sciopero dichiara in quel momento stesso un proprio non essere adeguatamente sul pezzo; in secondo luogo, l’assumere come interlocutori indistintamente i “sindacati” segnala un’alterità e per certi versi una strumentalità nei confronti del movimento di classe.

Pure, i movimenti sociali reali non nascono, come si dice dalle mie parti, imparati, devono invece tentare, sperimentare, al limite sbagliare, per crescere, ed è ridicolo impancarsi come professorini che insegnano ad altri quella lotta di classe della quale non conoscono nemmeno l’odore, la difficoltà e la bellezza.

Si tratterà dopo l’8 marzo di misurare la crescita del movimento anche da questo punto di vista.

Dall’altra parte, vi è stata un’ampia disponibilità formale del “sindacalismo di base” a “coprire” lo sciopero con delle indizioni che si affastellavano l’una sull’altra, ma è mancato, almeno a mio avviso, facendo alcune importanti eccezioni, come nei settori del trasporto e della sanità e in alcune regioni come il Piemonte, la Toscana e il Lazio, la fantasia sociologica e il coraggio di forzare l’orizzonte ci si è limitati troppo spesso a sventolare le proprie indizioni a costo zero.

Non vi è in questo testo lo spazio per discuterne, e forse l’argomento non è di particolare interesse, ma si è rilevato uno scarto evidente fra le indizioni formali e l’impegno diretto che è stato praticato dalle organizzazioni categoriali e locali, se non dai singoli militanti, a livello, appunto, di azienda, di categoria e di territorio, con l’effetto di avere risultati assai interessanti ma, per certi versi, in ordine sparso.

A quest’ordine di problemi si è aggiunta la scelta, ad opera di alcune organizzazioni sindacali della scuola, di indire, dopo che quello dell’8 marzo era GIA’ stato indetto da tempo, uno sciopero di categoria per venerdì 17 marzo, mostrando comunque un’apprezzabile sprezzo nei confronti delle superstizioni popolari.

Ovviamente, ogni organizzazione sindacale valuta autonomamente le proprie azione, resto però dell’idea che, se proprio non si reputava praticabile il concentrarsi sull’8 marzo per timore di indebolire la mobilitazione di categoria, sarebbe stato quantomeno opportuno un maggior distanziamento al fine di evitare problemi sia di sovrapposizione di indizioni che di scelta da parte delle colleghe e dei colleghi.

Per di più, la CGIL ha colto l’occasione per indire, certo non per organizzare, lo sciopero della scuola per l’8 marzo, al solo fine di accattivarsi a poco prezzo un’area di simpatie e di indebolire lo sciopero della scuola del 17 marzo.

Ma su questi temi forse sarebbe il caso di aprire, in tempi rapidi, un confronto serio nell’area del sindacalismo di base e, in generale, dell’opposizione sociale.

E però, ed è pure questo un fatto importante, se facciamo eccezione per il movimento No Tav e movimenti analoghi, è la prima volta da molto tempo che ci troviamo di fronte a un movimento di massa, per di più esteso a livello nazionale, che può liberare quelle energie nuove, necessarie a far saltare equilibri consolidati al limite della pura e semplice sclerosi, e ad aprire una discussione vera sulle prospettive reali del conflitto fra le classi in questo paese.

Cosa si tratta allora di cogliere appieno? Come sempre, se vogliamo, ma in forme nuove ed adeguate ai tempi, essenzialmente lo scarto crescente, per usare una vecchia ma ancora valida formula, fra le forze produttive intese come saperi, come potenzialità di sviluppo che possono volgersi al fine di sviluppare le esigenze propriamente umane, come ricchezza di relazioni, e, intesi invece come forza nemica, i rapporti sociali di produzione volti al mero profitto e alla conseguente distruzione di vite umane, dell’ambiente, della stessa capacità di progettare e di praticare un’organizzazione sociale adeguata a rispondere ai bisogni reali. Insomma, la contraddizione fra società gerarchica, Stato, proprietà privata e la prospettiva una società di liberi ed eguali.

Naturalmente, stiamo ragionando di potenzialità che si definiscono inevitabilmente per approssimazione, che si concretizzano in conquiste anche parziali e limitate, che procedono in maniera non lineare, come è normale in qualsiasi movimento di lotta.

Soprattutto oggi, ed è questa l’esigenza immediata: si deve lavorare sulla relazione possibile fra un movimento vasto, ma ancora come si è detto parziale, e la medietà della composizione di classe, fra le giovani donne ed i giovani uomini che erano in piazza l’8 marzo e le lavoratrici ed i lavoratori “normali”, nella misura in cui esiste una normalità.

La scommessa, insomma, è il salto dall’urgenza di uno sviluppo dell’opposizione all’attuale situazione al suo tradursi in un’effettiva rete organizzata di gruppi di discussione, di collettivi, di iniziative in effettiva dialettica, nel sindacalismo di orientamento classista e conflittuale.

Cosimo Scarinzi

Qui alcuni resoconti della giornata di lotta


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