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Un primo maggio di rabbia e di lotta

Un primo maggio di rabbia e di lotta

A young man spray paints an anarchist symbol on a kiosk during a march by anarchists on Labor Day in Mexico City, Thursday, May 1, 2014. Thousands of people, many calling for greater worker rights and protections, participated in various marches around the city center. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

Il Primo Maggio è giorno di lotta,nato dal sangue degli anarcosindacalisti che,nel1886,furono assassinati a Chicago per reprimere la lotta per le otto ore lavorative giornaliere.

È una data che oggi si vorrebbe normalizzare,facendolo diventare un giorno festivo come tutti gli altri.Non è un caso che un sindacato concertativo come la CGIL abbia sollevato il problema del lavoro festivo negli outlet il giorno di Pasqua e non il Primo Maggio. Non è poi un caso che l’USI AIT, gloriosa erede di quegli anarcosindacalisti trucidati,sia l’unico sindacato a proclamare lo sciopero generale il Primo Maggio proprio per ricordarne la caratteristica di giornata di lotta e non di festa (e per consentire di non lavorare a chi sarebbe costretto a farlo).

Visto che il Primo Maggio è nato dalla lotta per l’emancipazione dal lavoro salariato, è anche opportuno fare una valutazione sulla situazione dei lavoratori di cui, da qualche decennio, registriamo un costante peggioramento delle condizioni di vita.

Quasi una persona su tre (il 28,7%) in Italia è povera o in condizioni di deprivazione materiale. Si tratta di una quota sempre maggiore ogni anno che passa. Il20% della popolazione italiana (quello più povero) ha visto la diminuzione del proprio reddito disponibile, negli ultimi 10 anni, del 12%: un mese e mezzo del salario annuale. Sono aumentate anche le disparità tra nord e sud Italia: al sud quasi la metà della popolazione è in condizione di esclusione sociale.

L’economia però è un gioco “a somma zero” come il poker: se uno perde qualcun altro vince e per ogni povero in più c’è qualcuno che diventa più ricco. Negli ultimi 9 anni (cioè dall’inizio della crisi economica) il numero di quelli che hanno più di 10 milioni di Euro nelle proprie disponibilità in Italia è aumentato del 20%: adesso sono 6.600.In Italia l’1% della popolazione più ricca possiede un quarto di tutto il paese e la quota di ricchezza che i più ricchi possiedono aumenta ogni anno.

La società, che una volta si rappresentava come una piramide, con i ricchi in alto, la borghesia al centro e un proletariato più numeroso alla base, sta diventando sempre più una clessidra con pochissimi sempre più ricchi in alto e tutti gli altri, sempre più poveri, in basso.

Le politiche economiche seguite dai governi (tutti, nessuno escluso) ha incentivato questo stato di cose. Nel 2016, in sordina, in Italia è stata introdotta la “flat tax”per i ricchissimi “domiciliati non residenti”:si pagano 100.000 Euro a forfait indipendentemente dal proprio reddito. Ovviamente la convenienza è tutta (e solo) per quelli che di imposte sul reddito (prodotto all’estero) dovrebbero pagare più di 100.000 Euro. È però tutta la politica fiscale che, da sempre, ha teso ad accentuare le disparità favorendo i ricchi e penalizzando i poveri.

L’Irpef, che si paga su quanto uno guadagna nel corso dell’anno e risponde al principio che chi guadagna di più, paga di più, ha visto ridurre costantemente nel tempo sia le aliquote massime e sia la progressività dell’imposizione. Nel 1974, quando l’imposta è entrata in vigore, l’aliquota massima era del 72% per la parte eccedente i 500 milioni di lire (poco meno di 260.000 Euro) adesso è del 43% per la parte eccedente  i 75.000 Euro. Chi guadagna un milione di Euro oggi, paga il 40% in meno delle tasse che avrebbe pagato 43 anni fa. Allo stesso modo l’aliquota più bassa era il 10% per i redditi fino a 2 milioni (1.000 Euro circa) e adesso è del 23% per i redditi fino a 15.000 Euro con il risultato che chi guadagna di meno paga più tasse di prima. Su questo specifico argomento troverete un approfondimento in un articolo di Enrico Voccia in questo stesso numero di Umanità Nova.

Con l’IVA è andata anche peggio. Le imposte indirette (sono le imposte sui consumi come l’IVA) sono imposte regressive: chi ha un reddito più basso, paga proporzionalmente di più. La ragione è intuibile: se io guadagno poco spenderò tutto il mio reddito che verrà decurtato per l’intero ammontare dell’imposta, se io riesco a risparmiare una parte del mio reddito, pagherò proporzionalmente di meno. L’IVA è passata dal 12% del 1973 a l22% di oggi (con il serio pericolo di vederla arrivare al 25% in pochi anni).

Non parliamo poi delle imposte locali che sono servite a peggiorare la disparità tra le varie zone d’Italia. Le regioni povere hanno le aliquote più alte, un gettito sempre più basso e servizi sempre più scadenti.

Poi c’è l’aumento del costo dei servizi. Stanno smantellando sanità ed istruzione a tutto vantaggio dei privati (spesso coincidenti con la chiesa cattolica). Nella sanità, stanno chiudendo moltissime strutture sanitarie e, in quelle che rimangono, i lavoratori sono costretti a turni massacranti e i pazienti ad attese interminabili con l’obbligo di pagare per prestazioni sanitarie che dovrebbero essere gratuite. Nel 2016 più di 11 milioni di italiani hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa di difficoltà economiche. Anche qui troverete un approfondimento della questione in questo stesso numero di Umanità Nova.

Nella scuola un ulteriore peggioramento si è avuto con la riforma della “buona scuola”di Renzi che, oltre a umiliare i lavoratori e a punire i precari costretti alla deportazione interna, ha dimostrato la concezione che il governo ha dello studio. Per Renzi è più importante che gli studenti facciano la manodopera gratuita per una multinazionale pulendo i cessi di McDonald’s piuttosto che studino qualcosa che, nonostante una scuola gerarchica, gli potrebbe consentire di acquisire coscienza critica.

Rispettando i dettami del neoliberismo, con la scusa della riduzione del debito dello stato, sono state svendute tantissime aziende pubbliche regalandole ad imprenditori amici, determinando aumenti di tariffe (autostradali, elettriche, energetiche, dei servizi bancari) senza che questo abbia comportato alcun miglioramento dei servizi offerti o delle condizioni retributive di chi ci lavorava (che anzi, spesso è stato oggetto di ristrutturazioni selvagge). Nel 1992, anno in cui sono cominciate le privatizzazioni, il rapporto debito/PIL era del 105%; oggi, nonostante l’incasso di 110 miliardi di Euro e nonostante la valutazione delle aziende (a dimostrazione del regalo fatto) sia molto superiore al prezzo di vendita, il rapporto debito/PIL è  del 132,6% a certificare il fallimento di queste politiche.

Questa serie di scelte vengono giustificate con il refrain “ce lo chiede l’Europa”, come se questo assolvesse il ceto politico italiano dalle proprie responsabilità.

L’Europa che hanno costruito, mitizzando l’ircocervo dell’Europa dei popoli, è in realtà l’Europa delle banche. Sono le banche che gestiscono i flussi finanziari, i debiti degli stati, fanno profitti miliardari con questo modello di struttura sovranazionale.

Una volta il debito pubblico degli stati si pagava con l’inflazione. I titoli di stato erano posseduti soprattutto dai cittadini dello stato che li emetteva, che si garantivano una rendita certa e una tenuta dei risparmi. Con l’avvento dell’Euro e della Banca Centrale Europea, i titoli di stato possono essere negoziati solo dalle banche, che ne sono divenute i principali detentori. Del resto la BCE presta i soldi alle banche a un tasso d’interesse minimo e queste ci comprano (con una partita di giro a rischio nullo per loro) i titoli dei vari stati. Tanto per fare un esempio, nel pieno della crisi del debito sovrano, ad agosto 2012, la banche prendevano soldi in prestito dalla BCE pagando lo 0,75% l’anno di interesse e ci compravano i BTP italiani che gli fruttavano il 5,96%di interesse l’anno. Se la BCE,invece di garantire una rendita alle banche, avesse comprato allo stesso tasso i titoli emessi dagli stati, oggi non ci sarebbe nessun paese dell’area Euro in crisi e avrebbero tutti avuto i bilanci in attivo e non in deficit.

Quando chiedono di “pagare i debiti”forse dovremmo cominciare a discutere sul come e sul perché questi debiti si sono originati.

Nel Documento Economico Finanziario,approvato la scorsa settimana dal governo, c’è il proposito di portare l’avanzo primario (che è la differenza tra quanto lo stato incassa e quanto spende) al 4% del Prodotto Interno Lordo. Attualmente è al 2%: significa raddoppiare i sacrifici che si chiedono. Il raddoppio dell’avanzo primario è necessario per poter pagare la spesa per gli interessi sul debito, quelli che,per il meccanismo spiegato prima, vanno alle banche. Pensate che,per ogni bambino che morirà perché gli hanno chiuso l’ospedale vicino casa, ci sarà un banchiere che festeggerà a champagne il profitto che ha fatto premendo due tasti sul computer senza correre alcun rischio.

In Italia su queste cose l’opposizione non esiste. Tutti quelli che si sono stracciati le vesti per il recente referendum costituzionale proposto da Renzi non hanno detto nulla quando, nel 2012, è stato modificato l’art.81 della Costituzione, rendendo Keynes anticostituzionale in Italia. La modifica fu votata da tutti i partiti e il referendum non fu necessario. Così come nessuno ha messo in discussione il fatto che, dall’inizio del 2013, tutti i titoli di stato italiani recano una clausola CAC che dà ai detentori (cioè alle banche) il diritto di veto su eventuali modifiche operate unilateralmente sui titoli di stato. Se domani l’Italia uscisse dall’Euro,le banche potrebbero imporle di pagare in Euro i titoli emessi dal 2013 ad oggi.

Per garantire se stesso e i propri padroni il potere sta ristrutturandosi. Cede una parte della propria sovranità invischiandosi sempre di più in una situazione di strozzinaggio in cui, così come di fronte a un prestito usuraio, diventa impossibile uscire.

Per garantirsi la stabilità interna, il potere reprime in maniera brutale chi lotta, chiude gli spazi di espressione e aggregazione e vieta qualsiasi forma di contestazione.

Il decreto Minniti, la repressione brutale anche di manifestazioni pacifiche, la proposta di leggi liberticide per il controllo sul web (dove l’unica “verità”sarà la “verità ufficiale”del controllore) ,il disconoscimento dell’autorganizzazione sindacale dove, per avere la possibilità di fare attività sindacale, ti devi piegare alla regola di non mettere in discussione l’organizzazione del lavoro, gli sgomberi degli spazi sociali, vanno tutti nel senso di una stretta autoritaria tesa a soffocare sul nascere qualsiasi forma di dissenso.

Ogni potere però ha bisogno di costruirsi un po’di consenso e, non potendolo fare massicciamente in maniera clientelare, se lo crea inventandosi il nemico “interno”: lo straniero, il migrante, il “clandestino”.

Hanno raccontato la favoletta di un’Europa senza confini quando i confini sono più rigidi che mai. Così come si è festeggiata ieri la caduta del muro di Berlino, oggi si rivendicano le barriere di filo spinato e i muri per respingere i migranti.

Questo cercare rifugio nel nazionalismo, nella rivendicazione di una immaginaria identità “nazionale”sacrificata sull’altare della globalizzazione, sta prendendo piede al nord come al sud del mondo. I populismi ammantati di nazionalismo e religione che riscuotono successi elettorali in Europa e negli USA vanno di pari passi con i populismi ammantati di nazionalismo e religione che attraversano il Medio Oriente, la Russia, il Nord Africa, l’India ed il resto del mondo.

La guerra sembra essere entrata nuovamente tra le opzioni che il capitalismo ha per perpetuare il proprio sfruttamento. Usando la paura del nemico “esterno”si finanzia l’industria bellica.

Le uniche entità che fanno a meno dei confini sono le multinazionali, che ormai fatturano più della maggior parte dei singoli stati e che sono le nuove padrone assolute del mondo globalizzato. La merce da loro prodotta, a differenza degli sfruttati, può viaggiare liberamente senza incontrare fili spinati, con gli Stati che fanno a gara a chi gli offre le migliori condizioni fiscali per evitargli anche di pagare le tasse sui profitti miliardari che conseguono. Starbucks paga tasse minime in Olanda e tutti i negozi presenti nel territorio europeo gli girano i profitti fingendo di pagare le royalties per l’utilizzo del marchio. Google ha sede legale in Irlanda perché ha le più basse imposte sulle società e finge che lì vada pagata tutta la pubblicità che gli consente i profitti. Amazon ha sede in Lussemburgo e non paga nulla sui profitti che fa vendendo in Italia una cosa prodotta in Francia.

È una situazione destinata a peggiorare ulteriormente. In Italia simmetricamente all’aumento della precarietà del lavoro, che con il “jobs act” è diventato la regola, è diminuito il salario e sono peggiorate le condizioni della sicurezza sul lavoro, dell’inquinamento prodotto e della dignità dei lavoratori. Molte realtà familiari sopravvivono grazie alle pensioni dei nonni, eredità delle lotte degli anni passati, che, per ragioni biologiche, sono destinate a finire.

Accusano noi anarchici di essere utopisti, perché vogliamo cambiare radicalmente lo stato di cose presenti rifiutando questo sistema di regole che serve solo a perpetuare lo sfruttamento.

Noi rivendichiamo con forza la nostra alterità a questo sistema, che è l’unico modo per uscire collettivamente da questa spirale perversa voluta dal potere. Quelli che dicono di voler cambiare qualcosa senza mettere in discussione i presupposti fondamentali su cui si basa lo sfruttamento statale e capitalistico sono, nella migliore delle ipotesi, degli illusi o, più realisticamente, persone che vogliono arrivare a gestire il potere solo per migliorare le proprie personali condizioni di vita e di reddito.

Mutuando quanto detto da Spies sul patibolo, siamo certi che verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che hanno strangolato a Chicago nel 1886 e che reprimono oggi.

Buon Primo Maggio di lotta compagne e compagni.

Fricche


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