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Ancora una scelta tra Attila e Gengis Khan

Ancora una scelta tra Attila e Gengis Khan

Ni-Le-Pen-ni-Macron-a-Paris-et-BordeauxDopo la appassionante sfida statunitense al chi era peggio tra Donald Trump ed Hillary Clinton, la faccenda si è nuovamente presentata all’interno dei confini francesi, con una davvero fantastica libera scelta tra Marine Le Pen ed Emanuel Macron. Davvero siamo stati tutti presi da una passione folle nel sapere chi avrebbe vinto, se il campione del liberismo più sfrenato, quello che passa sopra come un rullo compressore sulle vite di ciascuno di noi riducendoci alla miseria, all’umiliazione, ad uno stato di guerra ed a scivolare sempre più in un neofascismo nemmeno molto mascherato o, al contrario, se avrebbe vinto la partita la campionessa del neonazionalismo a base razzista, quello che passa sopra come un rullo compressore sulle vite di ciascuno di noi riducendoci alla miseria, all’umiliazione, ad uno stato di guerra ed a scivolare sempre più in un neofascismo nemmeno molto mascherato…

In ogni caso, alla fine di questo appassionante incontro, ha vinto nemmeno troppo inaspettatamente Macron, tirandosi dietro circa il 90% circa dei voti dei voti in prima battuta legati al repubblicano Fillon e dei – oramai pochi – voti legato al socialista Hamon, ma anche il 40% circa dei voti di chi aveva, sempre in prima battuta, votato per l’estrema sinistra parlamentare di Mélenchon, che, evidentemente spaventati dal volto dichiaratamente fascisteggiante della Le Pen, si sono abbondantemente turati il naso e sono alla fine andati a votare per “il meno peggio”.

In effetti, nel votare Macron dopo aver votato Mélenchon, c’era di che indossare direttamente la maschera antigas. I gas mefitici da cui difendersi erano nientepopodimeno che un programma fatto di: tagli delle tasse ai ricchi (ed aumento di quelle sui poveri, di conseguenza), dei servizi pubblici (con circa 200.000 posti posti di lavoro in meno tra ospedali, scuole, ecc. ed enti locali), una ulteriore revisione del codice del lavoro (la Loi Travail – il Jobs Act alla francese – gli sembra troppo poco), tagli all’assistenza sociale (pensioni e previdenze più basse, meno prestazioni sanitarie gratuite, un minore sostegno alla disoccupazione ed alla vecchiaia, riduzione delle possibilità per i disoccupati di dire di no ad una proposta di lavoro ritenuta svantaggiosa), soppressione delle 35 ore per i neo assunti… in compenso 10.000 poliziotti in più per reprimere le rivolte sociali. Davvero in questo caso non si riusciva bene a capire chi, tra Macron e la Le Pen, fosse “il meno peggio”… sempre presumendo che i due non avrebbero incorporato nella loro azione politica il peggio del programma dell’altro, la Le Pen l’aspetto “neo”liberista sfrenato, Macron il nazionalismo razziale – cioè, quello che accade di solito in questi casi.

Ovviamente, la critica anarchica alla lotta elettorale prescinde dalle situazioni odierne: Errico Malatesta già nel XIX secolo faceva notare, infatti, come anche la democrazia a mandato parlamentare proporzionale migliore che si possa immaginare sarebbe in ogni caso una presa per i fondelli. Ipotizziamo, infatti, diceva, una base elettorale la più ampia possibile, perfettamente informata e dotata tutta di mezzi sufficienti per vivere senza essere gravata da condizionamenti impropri relativamente alla scelta elettorale. Ognuno di questi elettori darà il suo voto alla persona che meglio incarna i suoi ideali – e già qui è difficile che ci siano due uomini perfettamente coincidenti nelle volontà, soprattutto per tutti gli anni in cui dura un mandato parlamentare. Ammettiamo però pure che il singolo riesca a far eleggere il suo uomo: questi si troverà insieme a centinaia di altri eletti, la cui volontà nella gran parte dei casi avrà poco o nessun rapporto con i desideri del singolo elettore. Alla fine, le decisioni politiche imperative che usciranno fuori dal parlamento saranno il risultato di dinamiche interne ad un ristretto gruppo di potere: poco avranno a che fare, invece, con una pretesa “volontà popolare” di cui dovrebbero essere espressione, molto di più invece con gli specifici interessi del gruppo degli eletti. Una situazione che potrà agevolmente verificarsi grazie al fatto di averlo dotato di un mandato parlamentare e non di un mandato imperativo.

Detto questo per non ingenerare equivoci, è interessante notare però come questa situazione ideale venga approssimata, nella storia concreta, solo in rari casi, quelli in cui si è verificato un forte movimento popolare, in cui le classi dominanti hanno avuto timore di sommovimenti rivoluzionari vincenti, e che solitamente si ritrovi insieme a politiche sociali di relativa redistribuzione del reddito. Il caso classico è proprio quello italiano, in cui dopo la Resistenza armata antifascista, si sono avuti trent’anni circa di politiche sociali redistributive e, al contempo, una democrazia parlamentare fortemente proporzionale; in generale, però, una dinamica simile si può riscontrare in moltissime altre parti del mondo. Sospetto pertanto vivamente che la passione di molti militanti di sinistra in buona fede verso la prassi elettorale derivi dal ricordo di questi anni oramai mitizzati nella memoria.

In ogni caso, passata la paura della rivoluzione ed assopitisi i movimenti di classe, le dinamiche attuali sono andate in ben altra direzione ed hanno fatto una svolta completa verso il passato. Le politiche keynesiane sono oramai fuori gioco pressoché ovunque (talvolta, come in Italia, addirittura rese incostituzionali!), mentre anche un gioco elettorale un po’ più aperto a qualche outsider diventa sempre più un ricordo del passato. Un po’ ovunque troviamo elaborate leggi elettorali di marca maggioritaria che chiudono il gioco elettorale all’interno di ristrette èlites di capibastone: stanno diventando assai rari i casi di partiti politici che non si identifichino, di fatto, con la figura di un leader.

Anche mettendo da parte questa immagine dominante dell’“uomo solo al comando”, in ogni caso i costi della politica divengono talmente alti che molto difficilmente chi non è dotato di contatti forti ed organici con chi detiene le leve del potere economico riesce a reggerli. Questi contatti, però, si pagano – volentieri, intendiamoci – con l’appiattimento di tali élites ai desideri ed alle ideologie di quelli che un tempo si sarebbero detti “i padroni del vapore”: programmi e, soprattutto, prassi concrete una volti giunti al potere tendono ad assomigliarsi. D’altronde anche qui, il “nuovo che avanza” è come sempre il “vecchio che ritorna”.

Insomma, il nostro futuro vedrà sempre più la scelta elettorale ridursi a “scegliere” tra due immagini allo specchio. All’inizio di questo processo, alcuni decenni fa, uno di sinistra ma non anarchico poteva ancora illudersi di votare “il meno peggio”, ora però anche quest’ultima soddisfazione gli è negata. Il 60% di elettori di Mélanchon che non hanno votato al secondo turno – ed ancor più chi da sinistra si era astenuto anche al primo – sono il segno di una presa di coscienza di questo stato di cose, di un’insoddisfazione profonda verso i processi della politica parlamentare. C’è solo da sperare che questa insoddisfazione prenda la strada della lotta, senza ulteriori illusioni.

Enrico Voccia


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