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La chiusura del pensiero critico nell’Islam

La chiusura del pensiero critico nell’Islam

Pubblichiamo in due parti la traduzione di un articolo pubblicato sul numero speciale di Le Monde Libertaire, settimanale della Federazione Anarchica francofona, dedicato a Charlie Hebdo, supplemento al n. 1762 (22-28 gennaio 2015). L’articolo è firmato dal compagno René Berthier, del Gruppo Gaston Leval della FAf, il testo integrale di questo studio si può trovare su monde-nouveau.net, rubrica: Religioni.

Il carattere spaventoso degli omicidi perpetrati nel nome dell’Islam a Charlie Hebdo non deve incoraggiarci a cadere in reazioni irrazionali riguardo all’islam come religione praticata da centinaia di milioni di persone nel mondo, una religione praticata tranquillamente da delle persone normali che non chiedono che una cosa: che vengano lasciati in pace. Questo attentato non deve farci dimenticare che le prime vittime degli integralisti musulmani sono i musulmani stessi, allo stesso modo in cui le prime vittime di tutte le religioni sono le persone che praticano tali religioni.

Potrà sembrare strano parlare di un filosofo arabo del XII secolo quando siamo ancora scioccati dalla strage di Charlie Hebdo. Ma non è così strano. In effetti il settimanale è il prodotto di una cultura che ha essa stessa subito un piccolo aiuto iniziale mille anni fa grazie ad un filosofo arabo, Averroè (Ibn Rushd). Perché non bisogna dimenticare lo straordinario debito che noi dobbiamo alla cultura musulmana del XII secolo e a questo pensatore: se egli non avesse introdotto nel pensiero occidentale totalmente dominato dalla Chiesa l’idea che la teologia e la filosofia sono due cose differenti, il cristianesimo non avrebbe potuto essere stato consumato nel corso dei secoli dal verme del pensiero critico che si è realizzato con il Secolo dei Lumi, con la filosofia materialista, con la separazione tra Stato e Chiesa, con l’ateismo… e con Charlie Hebdo.

Per comprendere

Per comprendere, si dovrebbe spendere qualche parola su ciò che ci sembra essere un dato essenziale dell’islam: la prospettiva giuridica. Il testo fondatore di questa religione, il Corano, appare come un documento che contiene molte informazioni su ciò che è permesso e ciò che è proibito fare. Definisce norme applicabili da parte della società. In tal senso, l’esegesi del Corano è sempre un’esegesi giuridico-teologica. Il Corano è essenzialmente costituito di racconti metaforici e allegorici che non hanno senso che per i Beduini della penisola araba del VII secolo, a cui sono rivolti. Il Paradiso vi è descritto come l’antitesi dello spettacolo quotidiano, un po’ torrido e sabbioso, del Beduino: vi si trova dell’acqua in abbondanza, dei gardini lussureggianti, il latte ed il miele scorrono a fiotti, etc1.

Se si dovesse considerare il Corano come un documento universale da prendere alla lettera in modo assoluto, la Normandia sarebbe molto vicina al Paradiso.

I versetti prescrittivi del Corano rappresentano una parte ristretta del testo, ma una parte non trascurabile: su 6300 versetti, 500 riguardano la vita sociale. 80 versetti definiscono in modo preciso la purezza rituale, i divieti alimentari, il digiuno, il matrimonio e il divorzio, l’eredità e la tutela degli orfani, la punizione del furto, dell’adulterio.

È un autentico embrione del codice civile. Perché il Profeta era, a Medina, dal 622 al 632, un vero capo di Stato, ed i problemi posti per assicurare la sua successione non ebbero niente di teologico.

La “visibilità” dell’islam così come ce lo danno a vedere oggi i suoi portavoce più noti si limita alla parte prescrittiva, che si tratti di prescrizioni alimentari, abbigliamento o altro. Tuttavia questa tendenza normativa si trova fin dall’inizio: è il trionfo delle correnti normative in seno all’islam che ha condotto alla “chiusura delle porte dell’itijhâd”, vale a dire alla battuta d’arresto del pensiero critico, a partire dall’XI secolo.

Gli autori musulmani interpretano oggi in modo diverso la “chiusura” della ricerca critica che ha segnato l’inizio di un lungo processo di decadenza intellettuale.

Certi arrivano pure a negare questa chiusura.

È vero che il processo fu molto lungo e che la cutura musulmana continuò a brillare per molto tempo, cosa che ha contribuito a nascondere il fenomeno di decadenza che essa subiva. Inoltre questo fenomeno toccò poco il dominio della riflessione giuridica, centrale nella cultura islamica.

Mahdi Elmandira dice non a torto che «mai, a nessuna epoca, la storia ci ha riportato che un ulema, dottore in fiqh2 o capo di Stato abbia emesso una fatwa, una legge o un ordine di chiudere le porte dell’itijhâd3. È piuttosto il pensiero arabo che si è congelato sulle sue posizioni invece di scrivere il corso della storia. Il risultato di questo comportamento è uno stato di letargia, di regressione. I fattori di questa situazione sono molteplici e non sono più un mistero per nessuno. L’ijtihâd vive una stagnazione intellettuale i cui effetti si sono ripercossi in tutti gli ambiti. Si assiste per conseguenza ad una regressione della creazione in materia di ijtihâd.»4

Se l’ottica di M. Elmandjra è giusta nell’insieme, si può avanzare al contempo due obiezioni:

– Ci sono effetivamente stati, all’epoca, degli uomini che, richiamandosi all’ortodossia islamica, hanno tentato di rompere lo slancio dell’apertura culturale della civiltà musulmana, e spesso vi sono riusciti, soprattutto in Spagna.

Il blocco di ogni riflessione critica (ijtihâd) nella società sviluppata che era la società arabo-musulmana dell’XI secolo, non può essere che il risultato della morsa estremamente brutale di un pensiero ortodosso. Un tale fenomeno non accade senza cause identificabili. Non si verifica solo per il semplice decreto di un ulema o di un dottore di fiqh: si tratta della manifestazione storica di una crisi globale.

– Non è certo che le cause di questa situazione abbiano cessato di essere un mistero per molti autori musulmani. L’autore continua in effetti la sua esposizione affermando che c’è uno squilibrio tra le differenti forme di ijtihâd, tra la riflessione in materia di giurisprudenza temporale5 e di giurisprudenza spirituale6. Tanto quest’ultimo è ricco, dice, altrettanto il primo è povero. È lecito chiedersi se l’approccio adottato da M. Elmandjra non sia il sintomo stesso della chiusura dell’ijtihâd nella misura in cui egli limita lo sforzo della ricerca all’ambito della giurisprudenza.

Una società che centra la parte fondamentale dei propri sforzi intellettuali nell’ambito della giurisprudenza, a scapito di ciò che può essere definito l’attività creatrice della società civile, è inevitabilmente in regressione. L’insistenza posta sull’ambito prescrittivo conduce alla conservazione di ciò che è e impedisce ogni evoluzione.

Sembra difficile per gli autori musulmani – impregnati di cultura giuridica – accettare l’idea che la “chiusura delle porte dell’ijtihâd” non sia satata decretata da qualcuno – se possibile un dottore della legge – fatto che eviterebbe ogni riflessione sul fenomeno come un fatto risultante da circostanze sociali, politiche, storiche.

È significativo che M. Elmandjra citi un filosofo indo-pakistano che definisce l’ijtihâd come lo sforzo «orientato a formulare un giudizio indipendente su una questione legale» (sottolineo)7. L’autore commenta d’altronde: « l’ijtihâd è uno sforzo compiuto da parte di un giurista sia per estrarre una legge o una prescrizione da fonti scritte poco esplicite, sia per formulare un avviso giuridico circostanziato in assenza di testi di riferimento.» Il campo d’intervento della riflessione critica si limita dunque all’ambito prescrittivo (ciò che bisogna fare e ciò che non bisogna fare) a partire dai “testi di riferimento” i quali abbiamo capito che sono di carattere religioso.

L’analisi di M. Elmandjra ci sembra dunque giusta, ma volendo concentrare l’ijtihâd sulla nuova realtà politica ed economica in modo che la «sharia continui a brillare nel mondo musulmano», egli si posiziona nella stessa prospettiva della chiusura dell’ijtihâd, nella misura in cui circoscrive ogni prospettiva di evoluzione culturale nel quadro della religione: il principio stesso di una religione è di riferirsi a dei testi fondatori, che si può dubitare che siano adattabili dieci o quindici secoli più tardi. Diviene forte la tentazione di appoggiarsi a dei testi proclamando che la società ha deviato e deve riadattarvisi piuttosto che constatare che l’evoluzione della società ha reso questi tesi molto semplicemente obsoleti.

Se, per analogia, si può considerare che le “porte dell’ijtihâd” si siano aperte nell’Occidente cristiano nel momento stesso in cui si iniziavano a chiudere nel mondo musulmano, la “apertura” di queste “porte” si manifesta nell’Europa occidentale attraverso il mettere in discussione, timidamente all’inizio, poi in modo progressivo, della morsa del religioso sulla vita culturale. Questo mettere in discussione comincia nel momento in cui il pensiero di Aristotele penera nelle università occidentali (grazie ad un pensatore musulmano) ed in cui si pone la distinzione fondamentale tra teologia e filosofia – distinzione che non può imporsi nel mondo musulmano. Si può dire, per riassumere sommariamente, che nel conflitto che la oppose alla filosofia, la teologia ha prevalso nel mondo musulmano ma fu vinta nell’Occidente cristiano.

R.B.

(continua)

1 Senza menzionare i fantasmi sessuali:

«In verità avranno successo i timorati: giardini e vigne, fanciulle dai seni pieni e coetanee, calici traboccanti.» L’Annuncio, LXXVIII, 31-34.

«Gli eletti gioiranno di questi beni […] e i frutti dei due giardini saranno a portata di mano. […] Vi saranno colà quelle dagli sguardi casti, mai toccate da uomini o da dèmoni […] Saranno simili a rubino e corallo.» Il Compassionevole, LV 54-58. etc..

Non viene detto ciò che il personale esecutivo del Paradiso (vergini, houris, efebi e vari sevitori) diventeranno dopo l’uso. Infine, il Corano resta molto vago sul Paradiso delle donne: esse avranno semplicemente il diritto di trovare nell’Aldilà il proprio marito terrestre… e senza dubbio di assistere ai loro amplessi.

2 Giurisprudenza islamica. È ladisciplina incaricata di trovare delle soluzioni concrete; la letteratura cerca di distinguere la volontà divina nei diversi aspetti del culto e della vita sociale. Si distingue dalla sharia, che è l’espressione della volontà divina nella sua dimensione generale, nella sua sacralità immutabile.

3 Falso. È un califfo di nome al-hakam che ha decratato la “chiusura delle porte dell’ijtihâd, nell’XI secolo. Il pensiero critico aveva già subito una battuta d’arresto alla fine del IX secolo per quel che riguarda la teologia, ma in materia di filosofia e di scienze profane, la libertà di ricerca continuerà più o meno fino al XII secolo. D’altronde, nel 1188-1189, il sultano Almohade Abû Yûsuf Yaqûb Al-Mansûr fa vietare la filosofia, gli studi ed i libri in Marocco e in Spagna. In un’epoca marcata da delle sedizioni nel Maghreb centrale e dalla guerra santa contro i cristiani, il sultano condanna la filosofia, la riflessione e l’insegnamento. Ibn Rushd (Averroè) e la sua opera sono evidentemente presi di mira.

4 Conferenza tenuta alla Scuola Nazionale dell’Industria Mineraria, Rabat, il 19 febbraio 1991.

5 fiqh al-mouâmalaat.

6 fiqh al-îbaadat.

7 Mohammed Iqbal (1877-1938).

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