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Promemoria su razzismo, colonialismo e sessismo

Promemoria su razzismo, colonialismo e sessismo

“I migranti bivaccano in strada e oggi uno si è messo a telefonare a petto nudo di fronte al Comune.”

Alice Zanardi, sindaca PD, Codigoro, 5 agosto 2017

“Il quartiere di Spalen a Basilea è diventato negli ultimi anni una vera colonia di operai transalpini. La sera soprattutto queste strade hanno un vero profumo di terrore transalpino. Gli abitanti si intasano, cucinano e mangiano pressoché in comune in una saletta rivoltante. Ma quello che è più grave è che alcuni gruppi di italiani si assembrano in certi posti dove intralciano la circolazione e occasionalmente danno vita a risse che spesso finiscono a coltellate.”

da “La Suisse”, Ginevra, 17 agosto 1898

In tempi di intensi flussi migratori, missioni militari in Libia e speculazioni elettorali di tenore razzista, può non essere inutile provare a tracciare una sorta di mappa retrospettiva.

Nel Manifesto degli scienziati antirazzisti (2008), si poteva leggere: «Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione […] Queste astratte suddivisioni, basate sull’idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne» (art. 1); «L’umanità non è fatta di grandi e piccole razze. E’ invece, prima di tutto, una rete di persone collegate […] Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica» (art. 2); «Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nella nostra specie […] è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole» (art. 3); «E’ una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio […] I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola […] hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana» (art. 5).

Liberato quindi il campo da equivoci e teorie pseudo-scientifiche sulle differenze poste alla base dell’ideologia razzista che presuppone la superiorità (biologica, intellettuale o morale) di una “razza” sulle altre o, comunque, una gerarchizzazione razziale dell’umanità, è appunto il caso di considerare le forme più moderne di razzismo fondate sul cosiddetto differenzialismo, ossia su uno strumentale rispetto verso le differenze che devono essere preservate da contaminazioni all’interno delle rispettive comunità; non di meno, a fasi alterne, riaffiorano pure i temi del razzismo spirituale di matrice evoliana che vede stirpi evolute e guerriere e masse sottosviluppate e votate “per natura” alla sottomissione.

In realtà tali concezioni, in passato, si sono intrecciate con la politica coloniale dello Stato italiano, prima sotto le bandiere della monarchia sabauda e poi del regime fascista, così come si può desumere da una direttiva emanata nel 1937 da Alessandro Lessona, ministro dell’Africa italiana, che fissava i confini nelle relazioni coloniali «tra nazionali ed indigeni», mostrando anche la stretta connessione tra razzismo e sessismo: «La razza bianca deve imporsi per superiorità affermata non pure assiomaticamente, ma praticamente. Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera: ciò non significa spregio ed umiliazione dei neri, significa invece differenziazione tra gli uni e gli altri […] sia affrontata con estremo rigore – secondo gli ordini del duce – la questione del “madamismo” e dello “sciarmuttismo” […] Fino a quando le condizioni locali impongano la permanenza in Africa orientale di una grande massa di militari ed operai che necessariamente non possono recare seco la famiglia per varie difficoltà di vita, organizzare “case di tolleranza” anche ambulanti, con donne di razza bianca, vietando assolutamente l’accesso agli indigeni».

Questo tipo di approccio, peraltro, è attualmente riscontrabile nella propaganda neofascista – stile Casapound o Forza Nuova- in difesa delle donne (beninteso italiane, bianche e di indubbia moralità) insidiate dagli stupratori “extracomunitari” ma complice della tratta delle donne migranti, nonché delle violenze sessuali compiute su di esse da militari, trafficanti, poliziotti, protettori e clienti, dalla Libia all’Italia. I leghisti sono altrettanto indifferenti verso le donne – native e non – stuprate ed assassinate dai “bravi ragazzi” o dai “padri di famiglia” padani, mentre appaiono interessati alle possibilità aperte dalla prostituzione legalizzata.

Questo nodo, non privo di intersezionalità sessiste-razziste, vede larghe opzioni: da un Borghezio promotore di ronde contro le prostitute “straniere” a Torino e a Mestre, pur vantandosi di «aver assaggiato il prodotto locale» in Congo, al segretario leghista di Settimo Torinese, Gianluigi Cernusco, proprietario di un residence che ospitava prostitute rumene nonché la sede del partito.

Va peraltro osservato che se nei primi anni del Duemila, durante le mobilitazioni contro la globalizzazione capitalista, le destre ne avevano cavalcato l’onda, cercando – attraverso l’elaborazione di De Benoist – di indicare l’immigrazione “selvaggia” come uno strumento del complotto “mondialista” contro i l’identità e la sovranità dei popoli, oggi i fomentatori dell’intolleranza e gli imprenditori politici della guerra tra poveri hanno abbandonato ogni sottigliezza.

Nel 1994 Giulia Amaducci scriveva infatti che «si può dire che la teoria biologica si è cancellata a profitto di quella che potremmo chiamare una culturalizzazione (le culture si sono trasformate in nature seconde), e nello stesso tempo l’assioma dell’ineguaglianza razziale ha lasciato il posto alla nuova realtà che è la differenza interculturale», evitando in questo modo accuse di nazismo o di suprematismo bianco.

Attualmente, invece, definizioni quali «feccia», «escrementi», «spazzatura», «bestie» nei confronti di esseri umani, sono ormai considerate normali e legittime opinioni all’interno di un dibattito a senso unico, dal senato sino al circolino di periferia.

D’altronde è riscontrabile una sostanziale uniformità di vedute, dal Partito democratico alla Lega Nord, passando dal Movimento 5 Stelle, in cui ogni altra questione economica o sociale è subordinata alla paura e alla retorica dell’invasione, con conseguente amnesia collettiva dei crimini del colonialismo italiano e della collaborazione fascista con la politica hitleriana dello sterminio, tanto che non si esita più neppure ad evocare deportazioni, lager, forni e camere a gas quali soluzioni finali del “problema immigrazione”.

Ci si stupisce se nel web si trovano frustrati che dalla tastiera irridono persino alla morte dei bambini annegati nel Canale di Sicilia, ma si dimentica che il primo a proporre di sparare e affondare i barconi dei migranti fu il cattolicissimo onorevole Pierferdinando Casini sin dal 1999.

La discriminazione razzista – ha opportunamente osservato Luigi Goglia – è un «parassita vorace e onnivoro, si nutre di tutto quanto possa farlo crescere nella società umana; esso attraversa le ideologie, le parti politiche e le classi sociali; infatti, se è vero che le più evidenti e organiche manifestazioni di razzismo appartengono alla destra reazionaria e a quella radicale, anche le forze liberali e democratiche non ne sono indenni, mentre anche forze della sinistra moderata e di quella rivoluzionaria ne sono permeate. Affrontare il tema del razzismo, quindi – se vogliamo ottenere risultati veritieri e seri – , significa abbandonare i sicuri porti ideologici, che non raggiungono esiti realistici e positivi e contribuiscono invece a confondere la visione del problema, e arrischiarsi per il mare aperto in una navigazione vigile e attenta».

Osservatorio antidiscriminazioni


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