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Con chi costruire la rivoluzione

Con chi costruire la rivoluzione

Il seguente testo è stato pubblicato su Le Monde Libertaire nel maggio 2015 ed è stato ripubblicato all’inizio dello speciale della rivista francese dedicato ai “Giubbotti Gialli” (gennaio 2019), di cui abbiamo pubblicato l’editoriale nel numero scorso.

Penso da molto tempo che il movimento rivoluzionario in generale soffre di un’assenza di analisi sugli strati intermedi della popolazione. La difficoltà di definire la classe media deriva semplicemente da un lato dal fatto che non è una classe e dall’altro che questo è un falso problema. Tuttavia, tutto ciò non dimostra che questo qualcosa che corrisponde all’espressione “classe media” non esista.

Il termine “classe media” mi sembra comunque del tutto inadeguato. Abbiamo a che fare con strati sociali eterogenei, una buona parte dei quali ha redditi modesti o molto modesti, a volte persino inferiori a quelli di alcuni operai. Molti artigiani, piccoli commercianti, ecc. penano per ottenere uno reddito adeguato. Per non parlare dei contadini. Non è una questione di salari, ma di rappresentazione di status sociale: spiegare a queste persone che sono “proletari” non porterebbe a nulla.

Le persone appartenenti a queste classi medie hanno un terrore: quello di cadere nel proletariato. Uno dei motivi per cui i piccoli borghesi, i piccoli proprietari terrieri, i contadini sono così ferocemente attaccati alle loro proprietà è proprio questa paura di sprofondare nella classe operaia, nella povertà. Questo è qualcosa che Proudhon aveva capito perfettamente. Al contrario, chiunque conosca la classe operaia sa molto bene che il proletario medio ha un solo desiderio per i suoi figli: che non diventano operai. Tranne che in un caso: quello che chiamo dei “lavoratori con status”, cioè i lavoratori altamente organizzati sindacalmente, in pratica che hanno negoziato accordi collettivi. I portuali, operai tipografi, ecc. che guadagnano quattro volte il salario minimo od anche più, non vedono problemi se i loro figli seguono le loro orme. Comunque, era così quando ero ancora attivo: nel frattempo le cose possono essere cambiate… In queste categorie vediamo vere e proprie dinastie di operai. Spesso si è portuali, rotativisti o tipografi di padre in figlio. I padroni trasmettono la loro fabbrica ai figli, i portuali e gli addetti alla stampa trasmettono (trasmettevano, sarebbe più esatto) il loro mestiere.

Questa mancanza di analisi sugli “strati intermedi” è a mio parere una delle cause della debolezza del movimento libertario. La mia compagna ed io avevamo fatto su Radio Libertaire una trasmissione su “La donna di 40 anni”. (Si, proprio così…) Era in effetti la parodia di una trasmissione televisiva scandalosa sullo stesso tema, in cui avevamo visto le donne della borghesia ed intellettuali raccontare le loro vite. L’unica “proletaria” intervistata era una caricatura, una povera donna che erano andati a a cercare nei quartieri popolari del nord [le zone povere della Francia, dove la distribuzione geografica della ricchezza è un po’ l’inverso di quella italiana – NdT] ignorante, abbrutita dall’alcool ed appena in grado di esprimersi.

Tra i nostri ospiti su RL c’era una negoziante che ci raccontò della sua vita e ci fece cadere nell’orrore. Scoprimmo che le mogli di commercianti e artigiani lavoravano con (e per) i loro mariti senza retribuzione, senza diritto alla pensione, che erano totalmente dipendenti dai loro mariti e che non avevano diritti (da allora, le cose sono cambiate un po’). Negli interstizi della borghesia, ci sono situazioni spaventose alle quali il movimento libertario dovrebbe essere molto interessato. Questo disinteresse è tanto più curioso perché la composizione sociale del movimento libertario, secondo due sondaggi, è sorprendentemente identica a quella della società nel suo insieme.

Nel complesso, non siamo più in una situazione dove una stragrande maggioranza di proletari affamati sta affrontando una minoranza di persone privilegiate protette dallo stato. La minoranza privilegiata, certamente, è ancora protetta dallo stato. D’altra parte, c’è molta miseria ma non siamo più nella condizione della metà del 19° secolo descritta da Proudhon nel suo Sistema delle Contraddizioni Economiche:

“Queste sono scene cui l’immaginazione rifiuta di credere, nonostante i certificati ed i verbali processuali. Sposi nudi, infilati nel fondo di una stanza spoglia, con i loro bambini nudi; (…) cadaveri rimasti otto giorni senza sepoltura, perché non si trova per il defunto nemmeno un lenzuolo per seppellirlo, né abbastanza per pagare la birra e il becchino (…); famiglie ammassate nelle fogne, che vivevano in camere con maiali e mangiate vive dal marciume o che vivevano in caverne buie come albini; ottuagenari distesi nudi su tavole nude; (…) e queste persone, che scontano i crimini dei loro padroni, non si ribellano!”

Non penso esistano solo due classi. Questa è la visione semplicistica dei corsi elementari di formazione marxista, una visione che non corrisponde nemmeno al pensiero reale di Marx, quanto meno un po’ più complesso. Nel Capitale, Marx presume che ci siano due classi, ma è un’ipotesi che serve per la sua stessa dimostrazione. È come quando Rousseau parla di “contratto sociale”: nessuno si è mai riunito attorno a un tavolo per firmare un contratto simile – è un’ipotesi di lavoro. Nelle opere storiche di Marx, infatti, non ci sono mai solo due classi. Proudhon, allo stesso modo, ha scritto un libro intitolato La Capacità Politica delle Classi Popolari.

Si può affrontare il problema delle Classi Medie in diversi modi. Quello della CGT-SR mi sembra un buon inizio, quando definisce il proletario come:
“(…) il lavoratore dell’industria o della terra, l’artigiano della città o dei campi – che lavori o meno con la sua famiglia – il dipendente, il funzionario, il caposquadra, il tecnico il professore, lo studioso, lo scrittore, l’artista, che vivono esclusivamente del prodotto del proprio lavoro appartengono alla stessa classe: il proletariato.”

All’epoca, questa definizione collocava circa l’80% della popolazione nella categoria “proletariato”. Il problema qui è una questione di raffigurazione sociale, vale a dire dell’immagine che le persone hanno del loro ruolo e posto nella società. Non è certo che il piccolo artigiano, il caposquadra, lo scienziato, il funzionario siano pronti a considerarsi “proletari”, anche se di fatto vivono solo del prodotto del loro lavoro. Sarebbe inopportuno avvicinarsi dicendo loro che sono “proletari”, anche se oggettivamente hanno tanto interesse quanto gli “operai” a trasformare la società.
Occorre quindi scoprire il modo per avvicinarsi ad essi. Si noti che la CGT-SR non ha confuso il proletario e l’operaio. È ovvio che la società si è evoluta dal 1930 e che oggi le cose sono probabilmente più complesse, ma le basi dell’analisi mi sembrano ancora valide.

Poi c’è una constatazione da fare riguardo alla struttura socio-professionale della popolazione oggi. In Francia, tutte le categorie di operai rappresentavano solo il 12,3% della popolazione attiva nel 2013 (incluso lo 0,6% dei braccianti agricoli) (INSEE). Se si vuole realizzare il socialismo, anche se libertario, l’ipotetico supporto di questo 12,3% della popolazione (beh, si può sognare) sarebbe lontano dal fornire una base sociale sufficiente su cui fare affidamento, a meno di considerare l’ipotesi che gli “operai” esercitino sul resto della popolazione una sanguinosa dittatura. Lì, dobbiamo smettere di sognare. Occorre quindi convincere una gran parte di tutte le altre categorie, per lo meno quelle che vivono solo con il loro stipendio o lavoro.

Gli “artigiani-commercianti-imprenditori” rappresentano il 3,3% della popolazione attiva, ma gli artigiani solo l’1,6%, e tra loro quanti sono i piccoli capi con i dipendenti? Tra i “quadri professionali superiori” (9,3%) l’1,6% sono professori. Gli “ingegneri-quadri-tecnici” rappresentano il 2,6%. Il grosso è ciò che ora viene definito “professioni intermedie” (13,5%) (gli “strati intermedi”?), vale a dire gli insegnanti elementari, il personale sanitario (medici esclusi) e gli assistenti sociali, i dipendenti pubblici, gli addetti al commercio, i tecnici, i supervisori e … il clero. Un altro grosso pezzo sono i dipendenti (16%), di cui l’1,1% sono poliziotti e militari. Per quanto riguarda gli agricoltori, questi rappresentano l’1%, di cui lo 0,4% è fatto di grandi proprietari. A ciò si aggiungono i pensionati (“inattivi aventi avuto lavoro”) (31,9%) ed “altri senza attività professionale” (12,6%), di cui gli “studenti” rappresentano l’8,1% della popolazione attiva. Alla luce di questi numeri, chiediamoci

1. A chi (ipoteticamente) si indirizza il discorso della Federazione Anarchica?
2. Quali categorie sociali faranno la rivoluzione con noi?
3. Cosa accadrà a coloro che non saranno con noi?

Queste tre domande mi portano a constatare che è urgente per noi riconsiderare la nozione stessa di “rivoluzione”. In breve, se vogliamo svolgere un’attività rivoluzionaria, fare propaganda anarchica, non dovremmo accontentarci di provare ad applicare i nostri principi indipendentemente dalle persone con cui stiamo parlando, dovremmo forse esaminare chi sono tutte queste persone e trovare un discorso che queste siano in grado di capire – magari non tutti, ma almeno una grande parte di essi. Ciò che è vero per la nostra attività concreta si applica anche alla nostra stampa. In breve, occorre fare una sorta di “marketing rivoluzionario”.

Non possiamo parlare a questi strati intermedi come parlava Bakunin agli operai del 1870, quando lavoravano 14 ore al giorno tutti i giorni della settimana, portando i loro bambini di 7 anni addormentati sulle loro spalle a lavorare. (Prima di 7 anni i capi non li prendevano perché sarebbero stati costretti ad accordare loro il tempo libero per andare al catechismo… dove probabilmente avrebbero appreso l’amore dei padroni).

Un’altra cosa da considerare in una riflessione su di una “strategia” libertaria: l’accesso alla proprietà. Un po’ più della metà dei francesi possiede le loro case. La stragrande maggioranza di loro è convinta che vorremmo espropriarli. Ancora una volta dobbiamo trovare il modo di spiegarci, per fargli capire che non ci interessa se possiedono la loro casetta od il loro appartamento, che non vogliamo collettivizzare i loro spazzolini da denti!

Penso che il movimento libertario dovrebbe rendersi conto della necessità di tenere conto dei dati sociologici sulla popolazione francese per sviluppare una strategia che non sia una copia triste di ciò che ha fatto un secolo fa. È tempo insomma che il movimento libertario si chieda se il suo carattere minoritario non sia il risultato del suo attaccamento a questi concetti superati e della sua incapacità di avere una visione innovativa dell’attività rivoluzionaria.

René Berthier

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