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La lotta dei pastori sardi

La lotta dei pastori sardi

Quest’articolo deriva, oltre che dai classici riferimenti ai media di movimento, da alcuni contatti diretti con dei compagni sardi, alcuni dei quali hanno anche vissuto dall’interno le lotte dei pastori della loro isola. Ovviamente la situazione sarda è molto complessa e non pretendo di esserne diventato un esperto: ogni imprecisione, pertanto, non può essere ascritta alle mie fonti ma solo a me stesso.

La storia della lotta dei pastori

Negli ultimi tempi i grandi media hanno dato molto spazio alle lotte dei pastori: il tutto è nato sulla questione del prezzo del latte. La “guerra del latte” è iniziata a causa del prezzo del latte ovino pagato dai trasformatori ai produttori, cioè dagli industriali caseari ai pastori che gestiscono pecore e capre da latte. La contrattazione è viziata dal fatto che i pastori sono quasi costretti ad accettare il prezzo imposto dagli industriali, perché la cosa avviene mentre il ciclo produttivo è già avanzato: le pecore sono già gravide e stanno per figliare, oppure hanno già figliato e gli agnelli sono già stati venduti – perciò i pastori devono gestire una produzione quotidiana di latte per mesi che non può essere conservata ma deve essere conferita all’industriale o, tuttalpiù, trasformata in proprio, spesso con sacrifici in più rispetto a quelli che già affrontano per accudire il bestiame e mungerlo. Questa urgenza favorisce gli industriali che approfittano delle difficoltà organizzative e spesso anche economiche dei pastori per imporre il proprio prezzo. Quest’anno il prezzo del latte è stato di 54 centesimi di euro più IVA, cifra che non copre nemmeno i costi di produzione, calcolati in 74 centesimi di euro, senza considerare il valore della forza lavoro necessaria per rendere produttive le pecore ed estrarre la materia prima latte. A queste condizioni, l’attività produttiva è sconveniente: il pastore si alza presto ogni mattina e si reca al lavoro non per guadagnare ma per rimetterci. Il malcontento serpeggiava già dalle prime voci sul prezzo del latte ed è esploso appena è arrivata la conferma, cioè la prima fattura dell’acquisto del latte conferito agli industriali, tra dicembre e gennaio. Bisogna considerare anche che il pastore che conferisce il latte vede qualche soldo fintanto che munge; tra agosto e dicembre, però, ha soltanto spese senza ingressi di denaro. Molto spesso i premi comunitari riconosciuti per mantenere basso il prezzo delle materie prime dell’industria alimentare ed integrare il reddito aldilà della produzione arrivano in ritardo, arrivano solo in parte oppure non arrivano proprio. Inoltre alcuni pastori si sono indebitati perché le condizioni dell’attività produttiva inducono ad investire per rilevare i mezzi di produzione in regime di proprietà privata, oppure per ammodernare l’azienda con attrezzature che facilitano la produzione intensiva ma portano con sé costi di produzione maggiori ed una maggiore dipendenza dal mercato. I pastori sardi sono oramai, chi più chi meno, invischiati in questo odioso meccanismo della “economia di mercato”, in tutto il giochetto dei premi di produzione, dei finanziamenti, ecc.: tutti specchietti per le allodole che servono ad illudere i pastori sulla loro sorte in questo ingranaggio. Esisteva perciò un malcontento precedente che il prezzo sottodimensionato ha fatto esplodere.

La protesta ha infuocato inaspettatamente tutta l’isola e la scintilla è partita da un’azione diretta: due uomini a volto coperto hanno fermato una autocisterna che trasportava latte per conto dell’industria e, minacciandolo con dei bastoni, hanno convinto l’autista a scendere, aprire il bocchettone della cisterna e riversare per strada tutto il latte che vi era contenuto, facendogli peraltro filmare con il suo telefonino tutta la scena ed inviarla alla propria rubrica. L’azione ha avuto un forte impatto ed è stata subito recepita e riprodotta in diverse maniere: molti pastori si sono fatti filmare mentre loro stessi aprivano il bocchettone del proprio refrigeratore versando a terra o nella fogna il latte, che era conservato temporaneamente in attesa che fosse conferito all’industria tramite le autocisterne, in più in ogni paese i pastori si sono riuniti in un luogo magari simbolico oppure per strada ed hanno rovesciato dai propri bidoni il latte che avevano munto. Allo stesso tempo, è scattata la caccia alle autocisterne per le strade di tutta la Sardegna, inseguite, bloccate, costrette a svuotare l’intero contenuto. I social network, usati con un po’ di spericolatezza, hanno facilitato la coordinazione di questo tipo di azioni dirette. Inoltre sono stati bloccati i porti, perquisiti i camion della grande distribuzione ed in alcuni casi rovesciato per strada il contenuto (carne avariata importata dall’estero, derivati del latte o della carne), organizzati presidi permanenti davanti alle industrie casearie affinché non entrasse il latte e, quindi, venisse paralizzata l’attività industriale proprio nel mese in cui il latte rende di più nel processo di trasformazione. Infine sono stati organizzati blocchi stradali che hanno paralizzato il traffico per quasi tutta la giornata in diverse località ed occasioni. In queste occasioni, i pastori hanno scoperto che il latte versato agli industriali veniva rivenduto fuori dall’isola a prezzi raddoppiati ed esiste il forte sospetto che il latte venga pure importato dall’estero (Romania e Bulgaria ad esempio), trasformato e venduto come sardo, D.O.P. eccetera.

Rispetto agli anni precedenti, la protesta si è manifestata in modo molto diverso. Le associazioni di categoria che mediano gli interessi dei pastori e li frustrano nei canali istituzionali oppure li umiliano con proteste da mendicanti, sono state sorpassate, escluse, talvolta cacciate. La protesta si è organizzata in maniera spontanea ed improvvisa, ma soprattutto sparsa nel territorio perciò meno controllabile rispetto alle processioni preannunciate che radunavano in un luogo prestabilito i pastori, attesi dalle forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa. Questa volta non è stato possibile far fare ai pastori la parte delle pecore cioè chiuderli in un recinto e magari aggredirli pure fisicamente. Presto, la protesta si è avvantaggiata della solidarietà e simpatia di buona parte della società sarda, che malgrado la deculturazione subita negli ultimi decenni conserva una relazione di affetto quasi parentale verso i pastori e la pastorizia, vissuti come simboli viventi delle proprie radici culturali. Anche nelle città ci sono state manifestazioni di piazza partecipate da moltitudini variegati di ogni categoria sociale ed età. Sono stati sensibili alla protesta sia gli studenti che i commercianti.

Il recupero governativo

Il governo ha temuto per l’ordine pubblico perché la protesta ha dimostrato che i pastori avevano il controllo del territorio e la società sarda si stava mobilitando al loro fianco. Così, il governo ha evitato di usare la violenza per non rischiare di infuocare ancora di più la protesta e, dall’altra parte, ha sopperito ad una mancanza capitale (dal loro punto di vista) nella protesta dei pastori che stava risultando determinante: rispetto alle altre occasioni, non esisteva alcun capopopolo né direzione da decapitare o comprare istituzionalizzandola, perciò la protesta risultava ancor più incontrollabile. Così il governo ha scelto tramite le informazioni in suo possesso dei profili e li ha eletti a rappresentanti dei pastori: li ha fatti sedere al tavolo delle trattative con gli industriali strumentalizzando tale evento straordinario e gli ha messo la sella riappropriandosi del calendario della protesta, dell’informazione, del corso degli eventi.

Malgrado il passo avanti fatto dalla protesta dei pastori per i modi in cui si è manifestata, spostandosi dal palazzo della Regione alle campagne, i paesi, le strade dell’isola, dal giorno X ad un qualsiasi altro momento, dai megafoni e le bandierine alle azioni dirette, dai politici agli industriali, la protesta è stata parzialmente recuperata dallo Stato con abilità volpina. Infatti, nonostante l’iniziale rifiuto di qualsiasi mediazioni delle associazioni di categoria e dei politici, i pastori sono caduti nella trappola della trattativa e dei delegati scelti dal governo, un paradosso assoluto.

Come spesso mi è stato detto, la deculturazione avanzata nei decenni ha indebolito la cultura sarda e la sua coscienza millenaria che ha sempre diffidato dello Stato. Questa volta, il governo ha saputo sfruttare la situazione e forse ne ha giovato anche in termini elettorali.

La condizione sociale dei pastori

Il pastore è perciò di fatto un operaio mungitore che dipende dal mercato, le quotazioni in borsa, i cartelli locali, le multinazionali, le istituzioni sovralocali: un operaio sfruttato due volte perché oltre alla remunerazione sottocosto del proprio prodotto e quindi della propria forza lavoro, deve sopportare sulle proprie spalle anche i rischi del capitale rappresentati dalle avversità della natura e condividere i rischi di mercato che premiano gli industriali quando risultano favorevoli ma puniscono anche i pastori quando sono sfavorevoli. La cosa è iniziata negli anni novanta, con l’introduzione da un lato di tecniche di mungitura meccanizzata, dall’altro con l’introduzione sempre più invadente della legislazione europea, che hanno portato le aziende a cercare di inserirsi nella logica dell’allevamento industriale ed integrarsi nel meccanismo della grande distribuzione. In questo modo si è abbandonata la trasformazione casearia, la distribuzione e la vendita per ridursi, dall’intera filiera, alla sola produzione della materia prima, aumentando al massimo il rapporto animali/dimensioni del pascolo e, di conseguenza, lo sfruttamento dei servi-pastori.

Riprendere oggi in mano l’intera filiera presenterebbe numerosi ostacoli. Un aspetto positivo della protesta è stata, a tal proposito, l’individuazione dell’industriale caseario come controparte, mentre negli anni passati si andava a pietire davanti alla Regione: manca invece a tutt’oggi una coscienza diffusa rispetto a quelli che sono gli ostacoli regolamentari. Non è che sia proibito a priori chiudere l’intera filiera di produzione, trasformazione, distribuzione, vendita: occorrerebbe però sottostare a tutta una serie di regolamentazioni che di fatto la renderebbero possibile solo a possessori di grandi capitali. Prendiamo la legislazione igienico-sanitaria della UE: questa impone a chiunque, anche a chi possiede pochi animali, per la trasformazione del latte in formaggio l’utilizzo di apparati di estremamente costosi. Normative tra l’altro che fanno figli e figliastri: una lamentela che ho sentito, per esempio, è che la provincia di Bolzano è in deroga a queste norme e può produrre secondo i metodi tradizionali.

C’è poi l’aspetto della forza-lavoro: il piccolo/medio pastore non potrebbe materialmente seguire l’intera filiera, per cui occorrerebbe creare una struttura enorme dove i metodi tradizionali sarebbero facilmente a rischio. Se poi li si seguisse, si violerebbero le leggi dello Stato che hanno messo fuori norma molti tipi di lavorazione ed addirittura intere categorie di prodotti tradizionali – si pensi al formaggio marcio, tipico della Sardegna. Le norme UE livellano verso il basso la qualità dei prodotti, favorendo così di fatto il prodotto industriale le cui qualità organolettiche vengono a mancare di termini di confronto con quei prodotti che mantengono un rapporto stretto con l’ambiente e le tradizioni: alla fine, con sapori simili, vincono i prodotti più economici delle economie di scala messe in atto dall’agricoltura industriale.

Le altre lotte sociali in Sardegna

Negli ultimi decenni l’economia sarda ha accentuato sempre più la sua dipendenza dallo Stato (nazionale ed UE) e dalle strutture economiche multinazionali, una dipendenza che oggi è quasi totale. In pochi decenni l’isola è passata da una maggioranza di lavoratori autonomi, soprattutto nell’agro-pastorizia – che era difficilmente inquadrabile nei classici schemi della lotta operaia, dell’organizzazione sindacale e della lotta elettorale – ad una maggioranza di lavoratori dipendenti, di nome o, come abbiamo visto, di fatto. Inizialmente c’è stato il fenomeno dell’industrializzazione (il “Piano di Rinascita”) in vari campi, tra cui quello estrattivo e petrol-chimico – che ora è largamente in crisi – ed una crescita abnorme del settore terziario, soprattutto nel turismo che, dal punto di vista della popolazione sarda, significa sostanzialmente lavoro stagionale.

Attualmente, oltre alla lotta dei Pastori, ci sono certamente alcune mobilitazioni operaie, ma il settore è largamente in crisi e queste rivendicazioni sono sostanzialmente volte ad ottenere finanziamenti di capitale pubblico per mantenere il posto di lavoro, il che le immette facilmente nella logica clientelistica/elettoralistica. Inoltre, la comprensibile volontà di mantenere un reddito porta queste lotte a prescindere da qualunque altra considerazione – innanzitutto l’impatto ambientale e sulla salute di determinate lavorazioni. Da questo punto di vista, invece, ci sono varie lotte territoriali volte a rivendicare il diritto di vivere sui territori in cui si abita senza che altri vengano ad imporre installazioni e/o produzioni che lo stravolgano: penso alla questione delle pale eoliche, delle trivelle per il metano, del gasdotto, ecc. In generale, qui in Sardegna, negli ultimi tempi è la produzione energetica il punto d’interesse maggiore delle industrie multinazionali.

I limiti del movimento e le sue prospettive

Un altro aspetto della lotta lotta dei Pastori, vista dall’interno, è il fatto che è stata inaspettata, anche da parte delle realtà “militanti”. Col senno di poi, i partecipanti alla lotta hanno rianalizzato tante piccole cose che sicuramente portavano all’esasperazione i pastori: ad esempio l’abbattimento indiscriminato dei maiali al pascolo brado – se se ne trovava anche uno solo malato, veniva ammazzato anche il resto del branco sano e questo avveniva anche se non c’era alcuna prova della diffusione della malattia negli altri animali, in base ad una semplice vicinanza territoriale con il focolaio d’infezione. Una “precauzione” spesso effettivamente eccessiva da parte delle autorità statali che rovinava gli allevatori e li portavano appunto all’esasperazione, anche perché questi talvolta capivano come queste pratiche favorivano l’allevamento industriale stabulare, con l’arrivo di carni olandesi, francesi, ecc. e la graduale scomparsa del classico suino sardo allevato all’aperto.

Da questo punto di vista le aree più militanti e di segno libertario del movimento hanno fatto notare che il movimento avrebbe avuto in sé persino la potenzialità di un’insurrezione popolare, se non fosse che nel movimento è mancata una coscienza diffusa del ruolo dello Stato nelle sue varie articolazioni e delle sue capacità di recupero. Infatti, nel momento in cui lo Stato è intervenuto per motivi di ordine pubblico – come abbiamo detto la protesta si stava estendendo all’intera popolazione sarda – ma in maniera “amichevole”, il movimento si è subito spaccato e non ha saputo resistere ai suoi inganni.

L’analisi che ho riscontrato è che, se si fosse riusciti a continuare nell’operazione di aggregazione delle altre categorie di lavoratori e, in generale, di qualunque categoria di persone umiliate nel loro valore umano, le prospettive sarebbero potuto essere molto interessanti. Purtroppo, come dicevamo prima, non è maturato nel movimento un’idea ferma e del tutto condivisa del rifiuto della mediazione con gli organi istituzionali.

Ciononostante la lotta è stata di una potenza impressionante, quasi un’esemplificazione di quello che si può prospettare in una situazione di conflittualità in una società caratterizzata dalla perdita dei grandi apparati di produzione industriale, priva di riferimenti politici precisi, senza la presenza di grandi partiti e sindacati, polverizzata nel territorio, che si manifesta tramite l’azione diretta. Da più parti si è maturata l’idea, nel movimento dei pastori, che non si sarebbe dovuto trattare, occorreva invece restare unitariamente fermi sulla richiesta di un euro più IVA: la convinzione che ho sentito è che così facendo si sarebbe vinto. Trattando, invece, si è scesi a settantadue centesimi, con il bel risultato di spaccare in due un movimento fino ad allora coeso, tra chi – solitamente gli allevatori più grandi, maggiormente sensibili al richiamo degli industriali – voleva accettare l’accordo e chi – solitamente gli allevatori medio/piccoli – non lo accettava.

Su tutto questo discorso il movimento anarchico locale non è stato del tutto pronto – d’altronde il movimento è stato inaspettato per tutti – ma, come mi è stato detto, sicuramente vigile e presente, propagandando la pratica dell’azione diretta e dell’autogestione.

La protesta dei pastori, mi è stato detto, potrebbe trovare nuova forza se si rendesse conto che la sua forza sta nel rifiutarsi di essere ciò che non è, cioè ragionare da pastore e non da industriale né da politico, nel ricordare che dallo Stato non può aspettarsi niente di buono, superare perciò l’ingenuità democratica e farsi più radicale, cercando soluzioni per autogestire tutta la filiera e lottare con metodi propri. Ciò significa superare una legalità imposta dall’esterno che costringe molti momenti dell’economia sarda agropastorale alla clandestinità: come dicevamo, a partire dalle regole comunitarie sulle normative igienico sanitarie che obbligano a pastorizzare il latte (meno qualità, meno competitività verso chi produce tanto ma con poca qualità come Francia, Olanda, Germania ecc) oppure ad uccidere indiscriminatamente i capi di bestiame accusati di essere infetti, come ad esempio i maiali. Nei fatti, questo non è facile perché i pastori sono una categoria complessa e variegata: alcuni sono proprietari di bestiame e basta, altri anche del pascolo, in tutto o in parte. Così le aziende più grandi risultano paradossalmente più deboli nella protesta perché sono orientate del tutto verso la produzione intensiva così che possono adattarsi meno ad una prospettiva di autonomia ed autogestione.

Enrico Voccia

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